Tutti i bambini
hanno diritto ad un padre
e una madre.

Bambini divisi e contesi

La situazione

Va sempre più aumentando, nel nostro paese, il numero dei bambini coinvolti nel fallimento di una esperienza matrimoniale o di una convivenza di fatto dei propri genitori.

I dati statistici sono abbastanza indicativi della rapida evoluzione del fenomeno. Basta al riguardo rilevare:

a) le domande di separazione - che, secondo una media annuale, erano nel 1951-1960 di 8.827 e nel decennio successivo di 13.124 - sono passate nel 1973 a 26.914, nel 1980 a 39.859, nel 1989 a 42.640, nel 1993 a 55.892 . La progressione appare costante e inarrestabile : sempre di più la famiglia perde la sua capacità di durare, di rimanere coesa, di superare le inevitabili difficoltà della vita, di ritrovare un suo equilibrio ed una armonia interna. Il 14 % dei matrimoni nel nostro paese si dissolve precocemente ed appare inquietante il dato che il tasso dei matrimoni che finiscono con la separazione è in alcune regioni - più vicine agli ordinari standard di vita europei - del 20-25 %, il che fa ritenere che il fenomeno, con la progressiva "modernizzazione" del paese, tenderà ulteriormente a svilupparsi. E' anche da sottolineare come l'entità del fenomeno sia sottostimata. Non è senza significato che, come è stato rilevato, il fenomeno della instabilità coniugale rilevato dagli indicatori statistici riguarda prevalentemente, a differenza di quanto avviene in altri paesi occidentali (ad esempio gli Stati Uniti e la Gran Bretagna), le famiglie appartenenti alle classi sociali medio-alte che sono soprarappresentate nelle statistiche sulle separazioni e i divorzi. Il rilievo è esatto ma non indicativo di una effettiva maggiore propensione per la rottura dell'unità familiare di queste classi: la realtà è che nelle classi meno agiate - e quindi nell'impossibilità spesso di affrontare le notevoli spese connesse alla procedure giudiziali di separazione, e meno preoccupate di una regolamentazione giuridica delle relazioni anche patrimoniali successive alla rottura dell'unità familiare - è assai presente la separazione di fatto e la costituzione di nuove famiglie di fatto sostitutive, sia pure precariamente, della famiglia disciplinata dal diritto.

I dati statistici sono perciò rappresentativi solo per difetto della entità del fenomeno della instabilità familiare che deve ritenersi assai più corposo di quello - pur allarmante - emergente dai dati statistici.
b) E' anche da sottolineare un dato assai significativo che emerge dalle rilevazioni statistiche sulle separazioni giudiziali: pur essendo coinvolti nella rottura della unità familiare un numero sempre crescente di figli minori (di fronte ai 6.067 del 1969 si hanno i 30.309 del 1981 e i 34.667 del 1991 e i 33.242 del 1992), la percentuale di coppie con figli che si separano è passata dal 64 % di circa una ventina di anni fa al 56%, il che dimostra che la presenza di figli costituisce ancora un forte ostacolo alla rottura del matrimonio. Al contrario di quanto avviene in altri paesi, in Italia chi è senza figli ha il doppio di probabilità di separarsi delle coppie che hanno un figlio e, addirittura, circa il triplo della probabilità di separarsi rispetto a quelle che hanno due figli. Resta però il dato - assai inquietante e indicativo di come non tutto l'universo della lacerazione nell'ambito della coppia genitoriale è rappresentato dalla separazione giudiziale - che nel 1991 ben 912.000 minori vivevano in un nucleo familiare composto da un solo genitore.
c) Per completare questa sommaria analisi dei dati statistici è anche da rilevare quali sono stati gli affidamenti dei figli disposti a seguito di separazione: si va sempre più contraendo il numero degli affidamenti al padre (3.424 nel 1980, 2.903 nel 1985, 2.205 nel 1990, 2.260 nel 1991) mentre aumentano gli affidamenti alla madre (25.952 nel 1980, 29.418 nel 1985, 30.910 nel 1990, 31.958 nel 1991) e anche gli affidamenti alternativamente al padre e alla madre (8 nel 1980, 61 nel 1985, 301 nel 1990, 319 nel 1991). Diminuiscono gli affidamenti ad altre persone passando da 202 nel 1980 a 138 nel 1985, a 99 nel 1990 a 126 nel 1991. Appare pertanto evidente come, in sede di separazione e divorzio, la prassi in materia di affidamento seguita dai giudici, ove non sia possibile ricorrere all'affidamento congiunto, è quella di privilegiare fortemente l'affidamento materno (circa il 90 % degli affidi sono alla madre). E' interessante notare però che ciò non è dovuto ad una scarsa sensibilità giudiziaria nei confronti delle capacità paterne di svolgere tutte le funzioni connesse con l'affidamento di un figlio minorenne, come spesso è stato detto. Infatti anche nelle separazioni consensuali - in cui il giudice si limita a ratificare lo spontaneo accordo tra le parti - il fenomeno del prevalente affido del bambino alla madre è identico, sottolineando così la permanenza, nella cultura e nel costume, di una mentalità che delega alla madre il rapporto con i figli per quanto attiene alle esigenze quotidiane degli stessi.


Il trauma per il bambino della lacerazione familiare.

La lacerazione del tessuto familiare costituisce sempre per il bambino un grave trauma. Se è vero - come è vero - che per ogni bambino la compresenza delle due figure genitoriali è assai rilevante per una sviluppo armonico di personalità (come sottolineano la gran parte degli studi sulla famiglia monoparentale), è particolarmente traumatizzante, per il bambino che ha conosciuto entrambe le figure genitoriali e che ha installato con esse un significativo e intenso rapporto, vivere l'esperienza della lacerazione e del conflitto familiare. La concordia o la discordia dei genitori intorno al bambino non offre infatti a lui soltanto un buono o un cattivo esempio di vita ma ha una profonda influenza sull'intera personalità del soggetto in formazione; un focolare frantumato mette il ragazzo in contraddizione con se stesso e lo dilania; l'unità dei genitori non è vissuta dal bambino come una realtà puramente sociale o giuridica ma è la realtà del suo stesso essere che viene minacciata dalla divisione dei suoi genitori.

Certo, non può essere accettato un certo terrorismo ideologico che porta a definire i figli dei separati come dei bambini ineluttabilmente condannati al disadattamento e alla distruzione di personalità; non può essere costituita una nuova categoria di handicappati sociali in cui inserire i figli delle coppie divise; non si può correre oltre tutto il rischio che una simile classificazione, legata ad una visione meccanicistica di inevitabili esiti negativi, comporti una generale svalorizzazione e stigmatizzazione della condizione di questi ragazzi, innescando processi di identificazione negativa esiziali per il loro sviluppo.

Ma non è neppure accettabile il disconoscimento che problemi e rilevanti rischi esistono per questi ragazzi, ponendo così in essere deleteri meccanismi di rassicurazione collettiva e rimuovendo difficoltà che sono reali. E' necessario riconoscere che nessun bambino esce psicologicamente indenne dall'esperienza della rottura dell'unità familiare, anche vi sono possibilità di recupero e di superamento della crisi. Per il ragazzo, specie se piccolo, è sempre difficile distinguere tra le relazioni intercorrenti tra lui e i genitori e le relazioni intercorrenti tra i genitori: se si modificano queste ultime il ragazzo finisce con il ritenere che si siano modificate anche le prime. Il bambino inoltre non sempre ha strumenti sufficienti per elaborare la perdita di uno dei suoi genitori nel caso di dissolvimento dell'unità familiare e per comprendere le cause delle difficoltà familiari: sarà così portato ad attribuire a lui stesso la colpa del fallimento del nucleo quanto meno perché non è stato in grado di farsi tanto amare da impedire la rottura. E vive l'allontanamento di un suo genitore come abbandono, il che innesca il terrore di altri abbandoni anche da parte del genitore affidatario.

In realtà tanto l'enfatizzazione quanto la banalizzazione del problema della lacerazione familiare rischia di eludere la vera sostanza delle questioni connesse con questo inquietante fenomeno: conseguentemente, diviene assai difficile una elaborazione costruttiva della crisi che investe tutti i membri della comunità che si dissolve.

La situazione diviene ancor più drammatica quando il ragazzo entra nel conflitto coniugale come oggetto di contesa o peggio come strumento utilizzato da un genitore per colpire l'altro o come alleato di un genitore contro l'altro. Chi ha esperienza di procedure giudiziarie di separazione e di affidamento sa bene quanto spesso il bambino sia utilizzato, e manipolato, per ottenerne l'affidamento: e ciò non tanto per affetto reale verso il figlio o per assicurargli un avvenire migliore quanto principalmente per punire l'altro coniuge ovvero per assicurarsi - attraverso la conquista della "spoglia del bambino" - la vittoria nella causa e la "patente" di genitore, e quindi anche di coniuge, adeguato. E la lotta sul minore, e attraverso il minore, è anche funzionale spesso al bisogno di mantenere un rapporto che abbia valore compensativo del rapporto coniugale dissolto.

Ma se la posta in gioco è percepita così gli interessi dei figli, i suoi reali bisogni, le sue aspettative, il rispetto della sua personalità divengono per i genitori contendenti del tutto sfuocate o in realtà inesistenti e il bambino rischia, in questa conflittualità, di essere irreversibilmente travolto.


La coppia affronta le sue difficoltà senza adeguati sostegni.

Il periodo che precede l'accordo sulla separazione consensuale da omologare, o la dichiarazione giudiziale di separazione, è un periodo di gravi difficoltà non solo per la coppia che progressivamente si sfalda ma anche per il o i figli. Eppure, in questo momento cruciale per la vita di molti soggetti, manca un reale e proficuo sostegno da parte di persone capaci di stemperare anziché acuire il conflitto. Non solo il diritto ha scarsamente e confusamente disciplinato questa fase ma anche i servizi della comunità appaiono del tutto disinteressati a gestire in qualche modo la crisi familiare: per sostenere le persone coinvolte; per ridurre la violenta conflittualità che la traumatica rottura di legami così profondi comporta; per aiutare a costruire quel "divorzio psichico" che solo consente il mantenimento di civili rapporti con il partner e un recupero dell'autostima e che solo permette, pur nella dissoluzione della relazione coniugale, la permanenza di entrambe le relazioni genitoriali, fondamentali per il bambino.

Già prima che un coniuge manifesti espressamente di voler porre fine alla convivenza si verificano all'interno della famiglia squilibri relazionali, significative fratture, carenze comunicative, profonde insoddisfazioni: si dilatano le incomprensioni e gli arroccamenti difensivi, incominciano ad innescarsi processi di ricerca della responsabilità del fallimento, si formulano pronunce, anche se silenziose, di pesanti condanne che conteranno irreversibilmente anche nelle fasi successive. Ma in questa fase - in cui pure una azione di chiarimento, di decodificazione dei messaggi non verbali ma simbolici, di approfondimento dei nodi sottostanti alle difficoltà emerse sarebbe non solo opportuna ma anche risolutiva - il coniuge che più avverte insoddisfazione e disagio è lasciato completamente solo con il suo problema che non è in grado di correttamente decifrare. Al massimo si rivolgerà a qualche amico o alla sua famiglia di origine per manifestare le sue insoddisfazioni: e i consigli che riceverà raramente saranno in grado di aiutarlo perché gli improvvisati consiglieri non possono conoscere quali sono le reali dinamiche di coppia avendone una rappresentazione solo parziale e perché l'affetto porterà a schierarsi a tutto campo con colui o colei che chiede aiuto, riversando tutta la responsabilità sull'altro e rafforzando così la svalutazione già in atto sia della persona del partner che del rapporto. Il bambino percepisce esattamente il clima di disagio che va dilagando nella sua famiglia, pur senza capire cosa sta succedendo, ed il silenzio dei suoi genitori ingigantisce il suo terrore, senza che alcuno sia in grado di aiutarlo ad orientarsi in una situazione di grave confusione e instabilità.

Ma anche nella fase successiva - in cui la decisione di interrompere la convivenza è stata presa o comunicata da uno dei due coniugi - la famiglia in crisi rimane sostanzialmente sola. E' questa una fase in cui non solo aumenta, come è ovvio, la conflittualità tra i coniugi, e spesso in essa vengono pesantemente coinvolti i figli, ma in cui diventa anche necessario predisporre nuovi patti di regolamentazione di complessi rapporti personali e patrimoniali e ridefinire e costruire nuove posizioni sociali. Nascono in questa fase reazioni spesso inaspettate e violente; le posizioni tendono a radicalizzarsi; vi è il forte pericolo di una fuga dalla realtà per rincorrere soluzioni utopiche legate ad esigenze enfatizzate di rivalsa. E' questa la fase in cui ci si rivolge a mediatori improvvisati che spesso, pur con le migliori intenzioni, aumentano la confusione e acuiscono i contrasti; in cui assumono particolare rilievo le figure dei legali della due parti che, spesso a digiuno di conoscenze psicologiche e preoccupati principalmente di vincere la controversia sul piano della regolamentazione degli aspetti patrimoniali, enfatizzeranno gli aspetti patrimonialistici e sottovaluteranno gli aspetti relazionali innescando così ulteriori elementi di incomprensione e di conflittualità. E' questo il momento in cui diviene più facile contrabbandare come separazione "civile" e meno traumatica separazioni consensuali in cui il ricatto del soggetto forte impone al soggetto debole condizioni non sempre eque e rispondenti alle esigenze di tutti (specie dei figli). E' il momento in cui i coniugi, stressati, tendono a delegare totalmente agli avvocati la futura disciplina dei rapporti che spesso vengono da questi incanalati in consuete formule stereotipate che per la loro genericità possono adattarsi alle situazioni più disparate. Il bambino in questa fase non solo incomincia ad essere consapevole della frattura familiare e del pericolo di abbandono da parte di un genitore ma inizia a sperimentare i pesanti tentativi di alleanza che ognuno dei due genitori vuole instaurare con lui contro l'altro al fine di pingerlo a scegliere tra loro.

Se i coniugi non riusciranno a trovare un accordo extragiudiziario sulla regolamentazione del regime di separazione, diviene inevitabile il ricorso al giudice perché sia esso a stabilire le modalità di scioglimento della comunità familiare. Ed è raramente evitabile che, in questa fase, il contrasto tra i coniugi non divenga incandescente, specie se la materia del contendere è l'affidamento del figlio. Non è infrequente che nelle procedure giudiziarie di separazione l'aggressività scatenata nella coppia in crisi porti a rappresentare il partner non solo come colpevole della rottura ma anche come persona equivoca, disturbata, "cattiva". E questo non solo di fronte al giudice ma anche di fronte al bambino, chiamato ad assumere un ruolo di testimone delle incapacità dell'altro genitore, sottilmente influenzato perché esprima giudizi pesanti su di lui rendendo così impossibile l'affidamento a questi. La conseguenza è che il rapporto con il genitore, così pesantemente contestato, sarà irreversibilmente distrutto, perché il bambino assimilerà le valutazioni negative che gli sono state suggerite e sarà indotto a nutrire sentimenti di rancore nei confronti di chi gli viene rappresentato come colui o colei che ha abbandonato e tradito. Ma la distruzione di un rapporto genitoriale di cui il ragazzo si sente in qualche modo responsabile, proprio per i giudizi negativi espressi, priverà il ragazzo di un apporto necessario, lo renderà orfano di un vivo con una accentuazione di risentimenti non facilmente superabili, lo renderà corresponsabile nel fallimento di questo rapporto.


Le insufficienze dell'intervento giudiziario.

Tutt'altro che soddisfacente è poi l'attuale sistema giuridico di intervento giudiziario per tentare un superamento delle difficoltà familiari e per procedere ad una prima e provvisoria regolamentazione delle relazioni familiari che si lacerano. L'ordinamento prevede, sia nel caso di separazione consensuale che nel caso di separazione giudiziale, che il giudice tenti, nella prima udienza a ciò destinata, di conciliare i coniugi e cioè di convincerli a superare le ragioni che li hanno portati a voler interrompere la loro esperienza matrimoniale. Se la conciliazione non riesce sarà lo stesso giudice a determinare - se vi sono figli - un affidamento provvisorio.

Appare giustificata l'esigenza dell'ordinamento di cercare di salvare l'armonia della coppia e la permanenza di una comunità così essenziale per la vita di tutti i suoi membri, operando perché - attraverso un'opera di chiarimento - i problemi e le difficoltà siano superate: l'unità familiare non è un bene solo privato ma anche un bene pubblico. Appare invece tutt'altro che convincente lo strumento processuale predisposto. L'udienza di conciliazione si effettua quando il giudice conosce poco o nulla della reale situazione familiare, avendo preso conoscenza solo di quegli scarni elementi indicati nella domanda di separazione, oltretutto non sempre corrispondenti al reale groviglio di problemi che hanno portato al fallimento. Né il giudice, tecnico del diritto e non supportato in questa fase da alcun esperto, ha la preparazione e la capacità di affrontare insieme alla coppia i suoi reali problemi portando alla superficie i perversi giochi sottostanti alle difficoltà familiari. E nei pochi minuti disponibili è impensabile che possa scattare un ripensamento da parte di persone che hanno già a lungo affrontato tra loro il problema e si sono profondamente convinte che l'unica soluzione praticabile è la rottura del legame ed hanno già affidato ai propri legali la trattazione della pratica . Il tentativo giudiziario di conciliazione, così come concepito, non può non risolversi in un atto puramente formale, che difficilmente potrà approdare a una reale comprensione dei problemi e ad un'opera veramente fattiva per superarli: si ridurrà a "un fervorino" del Presidente, ad una vacua esortazione priva di reale contenuto.

Né l'affidamento provvisorio viene effettuato sulla base di un reale discernimento della situazione e sulla base delle esigenze del bambino. Anche su questo, tutt'altro che irrilevante, aspetto del problema il magistrato decidente è privo di una seria conoscenza delle problematiche della coppia e del bambino, delle aspettative di questi, di come egli viva la situazione nuova e preoccupante che gli si apre dinanzi: la decisione viene così assunta "al buio", sulla base spesso di stereotipi culturali o di interessate prospettazioni delle parti. A parte il fatto che la decisione del giudice, anche se provvisoria, si abbatte comunque come una mannaia sul bambino, che vede sfumare nel nulla una delle due figure di riferimento e che può vedersi attribuito al genitore meno grado di rispondere alle sue esigenze specie in un momento delicatissimo della sua esistenza, è anche da rilevare che il provvedimento provvisorio - anche se non corrispondente agli interessi del bambino - è destinato a durare molto tempo e perciò a condizionare anche il provvedimento definitivo che non può facilmente operare nuovi strappi e realizzare diverse sistemazioni dopo che le situazioni si sono radicate. Sarebbe perciò indispensabile che il tentativo di superamento dei problemi che portano alla separazione fosse effettuato da équipe tecniche competenti nella comprensione delle dinamiche familiari e nel trattamento delle crisi familiari e che fossero queste équipe a svolgere un ruolo di approfondimento anche dei problemi del bambino per suggerire al giudice quale possa essere, anche se in via provvisoria, un affidamento più corrispondente ai suoi interessi ed alle sue aspettative.


L'opportunità di una mediazione familiare.

Sarebbe pertanto assai opportuno sviluppare anche nel nostro Paese - come fortemente auspicato da molte parti - l'esperienza, in altri paesi praticata, della "mediazione familiare" a cui le coppie in crisi possono rivolgersi per essere aiutate a costruire una separazione non basata sulla conflittualità ma sull'accordo ragionevole.

Non è però sufficiente che tale fondamentale funzione venga svolta da organismi privati - come sta avvenendo - accessibili per lo più solo a categorie di cittadini economicamente provveduti. Se si vuole aiutare veramente la famiglia per la sua rilevante funzione sociale - e si vogliono aiutare efficacemente i minori che soffrono situazioni di particolare difficoltà e di rischio - è indispensabile che organismi pubblici assumano lo svolgimento di una simile fondamentale funzione.

Potrebbe essere previsto una riforma legislativa - come propongono alcuni progetti di legge presentati in Parlamento - che imponga ai coniugi che vogliono porre fine alla loro esperienza matrimoniale, di comunicare, prima di adire il tribunale, la loro intenzione di separarsi o di divorziare al Consultorio familiare territorialmente competente o scelto di intesa tra loro. Il Consultorio - che potrebbe essere stato adito anche precedentemente da uno dei coniugi al momento dell'insorgere del dubbio sulla possibilità di continuare nella convivenza - convocherà le parti, entro un breve termine, per spiegare le procedure di separazione e le conseguenze che esse comportano specie nei confronti dei figli; per esperire il tentativo di conciliazione (oggi del tutto formale perché effettuato da soggetto non informato del caso e non idoneo a intervenire significativamente sulle dinamiche conflittuali esplose); per aiutare i coniugi a chiarirsi quale tipo di affidamento può essere più proficuo per il bambino, e quindi anche per essi, e quali modalità di affidamento potrebbero non solo rendere più sereno l'avvenire dei figli ma anche preservare meglio il loro rapporto con essi. Se la conciliazione si verificherà sarà redatto un processo verbale sottoscritto da entrambi i coniugi; se la conciliazione riguarderà solo le modalità della separazione verrà ugualmente redatto un processo verbale che sarà presentato al tribunale per l'omologazione della separazione consensuale; se invece il tentativo di conciliazione fallirà anche sulle modalità della separazione sarà egualmente formato un processo verbale in cui saranno precisate le posizioni delle parti e inoltre il Consultorio invierà al presidente del Tribunale una relazione nella quale sarà analizzata la natura del conflitto e le prospettive del suo svolgimento, nonché elementi di giudizio in merito all'affidamento dei figli.

E' da segnalare che la proposta di legge Tortoli (Camera dei deputati n 2197) presentata in Parlamento nella XII legislatura prevedeva l'istituzione di appositi Consultori familiari specializzati nella mediazione familiare.


I problemi per il figlio minore dopo la pronuncia di separazione.

Non sempre il conflitto termina con la decisione giudiziaria relativa all'affidamento: l'aggressività - e l'equivocità dei rapporti tra tutti i soggetti del dramma - può permanere anche dopo la chiusura della lite giudiziaria. Anzi, in molti casi, essa si accentua, sia da parte del genitore che "ha vinto" avendo ottenuto l'affidamento, sia da parte del genitore che "ha perso" e che vuole in qualche modo rifarsi. Così il genitore affidatario - che vuole stravincere - tenderà a ostacolare, anziché facilitare, i rapporti del figlio con l'altro: inizierà una sottile, assillante, continua opera di denigrazione dell'altro genitore perché i rapporti si rarefacciano o comunque non siano pienamente soddisfacenti per il ragazzo; si cercherà un legame compensativo per la perdita del naturale partner e si spingerà il ragazzo ad assumere un nuovo ed assai equivoco ruolo di partner sostitutivo del genitore, il che inquina non solo i rapporti con il genitore non affidatario ma anche i rapporti con il genitore con cui il ragazzo vive ; si inventeranno continue scuse per non ottemperare alle disposizioni relative alle visite dell'altro genitore e ai suoi rapporti col figlio, coinvolgendo il bambino. Da ciò una continua microconflittualità che avvelena i rapporti e rende estremamente precaria la vita del ragazzo.

Il genitore non affidatario, da parte sua, reagisce spesso in modo speculare: cercando di denigrare il genitore affidatario; di approfittare dei necessari dinieghi - che il genitore, con cui il ragazzo quotidianamente vive, deve di necessità esprimere alle troppe richieste, anche di natura compensativa, che il ragazzo avanza - rappresentando il genitore affidatario come non liberale e tarpante; di catturare l'attenzione e l'affetto del ragazzo attraverso doni di rilevante valore e divertimenti a profusione che non compensano affatto il ragazzo di ciò che ha perduto ma lo fanno vivere delle giornate irreali che si contrappongono alla grigia quotidianità della esistenza presso il genitore affidatario; di intravedere in ogni difficoltà del ragazzo al rapporto con lui - dovuto solo all'insufficiente comunicazione che si instaura e all'imbarazzo per incontri fugaci e troppo programmati - una azione di "plagio" da parte dell'altro genitore con conseguente esplosione di nuove aggressività nei confronti di lui.

Da una simile guerra continua il ragazzo uscirà sostanzialmente distrutto.

In questa fase tutti i soggetti del dramma sono sostanzialmente soli e devono affrontare le non irrilevanti difficoltà senza alcun aiuto, consiglio, sostegno. Per i servizi della comunità territoriale un compito di trattamento di queste, spesso esplosive, situazioni non è previsto: i servizi sociali intervengono solo a tutela del minore che presenti seri problemi e non possono, e non sono in grado, di prendere in carico il complesso nucleo familiare per ridurne la conflittualità (cosa del resto non facile se il problema non sia stato aggredito sin dall'inizio e si siano lasciate incancrenire, anche attraverso l'intera fase giudiziaria non orientata ad un "divorzio costruttivo", le contrapposizioni, i desideri di vendetta e di rivalsa, le aggressività). Sono stati previsti - vedi esperienza di Milano con per l'istituzione nell'Area minori di uno Spazio neutro per gestire gli incontri tra minori e adulti in situazioni conflittuali (in "il Bambino Incompiuto" n. 5/1995 ) - strutture che facilitino il riavvicinamento relazionale ed emotivo tra genitori, o adulti di riferimento, e figli che abbiano avuto una interruzione di rapporto determinata da dinamiche gravemente conflittuali interne al nucleo familiare ma la opportuna iniziativa - che oltretutto serve per casi di particolare gravità - non appare risolutiva delle complesse dinamiche relazionali che devono essere attivate tra figli e genitori non affidatari. Né appare opportuno il ricorso, sempre più utilizzato dai Tribunali o dai Giudici tutelari, in sede di disciplina delle modalità di visita del genitore non affidatario poco affidabile, alla obbligatoria presenza agli incontri di un assistente sociale in funzione di vigilanza: la presenza di un soggetto terzo rende artificioso l'incontro, rischia di snaturarne spontaneità e significatività e di ridurlo ad una stanca routine. Sarebbe assai opportuno che, anche in questo caso, il Consultorio familiare - che dovrebbe costituire lo strumento privilegiato per affrontare i problemi familiari fin dal loro primo insorgere - assumesse in pieno le sue responsabilità, facendosi carico di questi problemi. Purtroppo però il Consultorio familiare è divenuto nel tempo sempre più un organismo di tipo sanitario più che psicosociale e un organismo che interviene più a sostegno di un singolo membro della famiglia (nella stragrande maggioranza la donna, anche per il messaggio sui consultori che è stato propagandato) che per chiarire le complesse relazioni familiari coinvolgendo tutti i membri della comunità familiare. Non è senza significato il dato - inquietante - che emerge da una ricerca Censis, secondo cui l'84% degli interventi consultoriali prestati in Italia dai Consultori pubblici riguarda l'area medica e solo il 14% l'area psicosociale mentre il 2% quella delle adozioni e degli affidi e secondo cui l'utenza dei consultori è stata nel 1988 formata nel 76% dei casi da donne, del 4% da uomini, del 17% da bambini,dell'1% da adolescenti, del 2% da coppie e solo dello 0,3% da famiglie. E' forse venuto il momento di distinguere il Consultorio familiare sanitario dal Consultorio familiare socio-educativo creando organismi diversi anche se collegati tra loro.

E' anche da rilevare come raramente si svolga una effettiva funzione di vigilanza sui bambini che, non vivendo con i propri genitori, ma dovendo mantenere significative relazioni con entrambi, si trovano oggettivamente in una situazione di difficoltà e di rischio.

L'ordinamento (art 337 cod. civ.) prevede per la verità che il Giudice Tutelare (cioè il Pretore) debba "vigilare sull'osservanza delle condizioni che il Tribunale abbia stabilito per l'esercizio della potestà e per l'amministrazione dei beni". Ed è pacifico, in giurisprudenza e in dottrina, che con la dizione "Tribunale" si è voluto intendere qualsiasi autorità giudiziaria che, disponendo l'affidamento di un minore ad uno dei genitori o a un terzo, incida in qualche modo sull'esercizio della potestà: la vigilanza ricomprende pertanto anche i casi di separazione o divorzio. Secondo il disposto legislativo infatti la "vigilanza" dovrebbe essere espletata nei confronti di ragazzi che, per essere stati privati della coppia genitoriale o essendo stati allontanati da uno dei genitori, si presumono a rischio. Il Giudice Tutelare invece interviene effettivamente solo quando sia sollecitato da qualcuno: o perché sorgono difficoltà nell'applicazione delle disposizioni sancite dal giudice o perché non è chiaro come esse debbano essere intese ed eseguite o perché le modalità attuative previste si rivelano contrastanti con gli interessi del minore. Il G. T. non ha possibilità di modificare esso le disposizioni sancite dal giudice della separazione (se una simile esigenza si presenta esso deve reinvestire della questione il giudice competente) ma solo specificarle e adattarle alle nuove necessità. Il che sottolinea ancora una volta l'incongruenza di un sistema giuridico che disperde la competenza a intervenire nella crisi di coppia tra una pluralità di organi giudiziari: il Tribunale ordinario per le separazioni e divorzi della coppia coniugale; il Tribunale per minorenni per il caso di separazione della famiglia di fatto e per gli interventi sulla potestà sia nei confronti dei genitori legittimi che di quelli naturali; il Giudice tutelare per la vigilanza ma anche per la emissioni di statuizioni quando non siano sostanzialmente modificative delle disposizioni del Tribunale.

Inoltre non può non sottolinearsi il fatto che in una materia così delicata l'intervento è affidato ad un giudice che non è specializzato ed ha una serie di altre impegnative competenze in materia penale e civile per cui questa materia diviene per lui del tutto accessoria e secondaria.

E' anche da sottolineare come l'ordinamento giuridico ha scarsamente disciplinato i rapporti conseguenti alla separazione. L'art. 155 comma 3 cod. civ. - come del resto l'art 6 comma 4 L. 1.12.1970 n 898 (modificato dalla legge 6.3.1987 n 74) - prevede che, salvo diversa disposizione del giudice della separazione, "le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori" e comunque che "il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse". Ma se il diritto a mantenere un'attenzione nei confronti del figlio e dei suoi problemi è chiaramente sanzionato, prevedendo le possibilità di intervento del genitore non affidatario, il dovere è meramente affermato, senza prevedere sanzioni per la sua elusione, per cui esso sostanzialmente si degrada a mera facoltà. L'ordinamento infatti non esplicita mai che il figlio ha un diritto soggettivo a mantenere significativi rapporti con entrambi i genitori: non è infrequente che il genitore non affidatario divenga solo un erogatore di risorse economiche - e se non ottemperi a questo obbligo é previsto un intervento sanzionatorio penale - senza che l'ordinamento si preoccupi che il genitore possa divenire solo un "fantasma" in perenne fuga.

La Convenzione dell'ONU sui diritti del fanciullo invece riconosce espressamente il diritto del bambino a conservare le sue relazioni familiari con entrambi i genitori (art. 8 / 1): anche l'ordinamento italiano - quanto meno in sede di interpretazione delle norme esistenti - dovrebbe riconoscere e garantire tale diritto in caso di separazione o divorzio. Dovrebbe così essere più ampiamente affermato sia l'obbligo (non solo il diritto) del genitore non affidatario di collaborare lealmente al suo processo evolutivo sia del genitore affidatario di favorire e non ostacolare i rapporti del figlio con l'altro genitore.

Sarebbe anche opportuno prevedere sanzioni sul piano civile per l'inottemperanza dei rispettivi obblighi: per il genitore non affidatario potrebbe essere prevista una dichiarazione di abbandono unilaterale che faciliterebbe l'adozione del minore ex art. 44, l. b, n.1 della legge sull'adozione. Per il genitore affidatario la possibilità che il giudice imponga prescrizioni e, nei casi più gravi, la revoca dell'affidamento.

Potrebbe inoltre prevedersi l'adozione di altri, e più incisivi, strumenti deterrenti per genitori separati che non ottemperano ai loro doveri. Non appare accettabile che la legge sul divorzio preveda l'applicazione della pena di cui all'art. 570 cod. pen. al divorziato che non versi l'assegno di divorzio e quello di mantenimento mentre nulla prevede per il caso del genitore non affidatario che non visiti mai i figli, che non scriva, non telefoni, non dia in alcun modo notizia di sé. E' vero che un simile comportamento dovrebbe ritenersi ricompreso nella fattispecie legale dell'art. 570 sopra citato: ma la scarsa utilizzazione di tale disposizione in casi come questi renderebbe opportuno un esplicito richiamo alla sanzione penale anche nel contesto civilistico in cui il dovere è affermato.

Di converso dovrebbe essere riscritto il secondo comma dell'art. 388 cod. pen. - relativo alla elusione dolosa dei provvedienti del giudice in materia di affidamento - per ricomprendere anche i casi in cui il coniuge affidatario elude il provvedimento del giudice in merito al mantenimento dei rapporti del figlio con l'altro genitore istigando - come spesso succede - il ragazzo a rifiutare lui i rapporti con il genitore non affidatario, che è poi il modo più subdolo di eludere il provvedimento giudiziario emesso a favore del figlio.


Le violazioni del regime di affidamento

Un tema di particolare rilievo per la tutela del figlio di genitori separati è quello legato alle sempre più frequenti violazioni del regime di affidamento stabilito dal giudice. La cronaca quotidiana ci narra di bambini frequentemente sottratti o non restituiti al genitore affidatario. E' questo un fenomeno inquietante perché emblematico dell'assoluta mancanza di affetto e di rispetto verso il bambino ridotto a "cosa" da possedere a qualunque costo e a simbolo del protervo senso di proprietà del genitore sulla sua creatura. Lo sradicamento del bambino dal suo ordinario ambiente di vita; la violenza che accompagna il rapimento; l'occultamento che ne rompe le ordinarie usanze di vita; il senso di impotenza e di dipendenza assoluta; tutto ciò rischia di distruggere la personalità del ragazzo. Il problema si presenta in modo diverso a secondo che il bambino sia figlio di genitori entrambi di cittadinanza italiana e residenti in Italia o di genitori che hanno cittadinanze diverse e quindi regimi giuridici non sempre omogenei.

a) In ordine alla prima situazione è da rilevare che, astrattamente, il regime giuridico previsto appare garantire in maniera sufficiente il minore: è però in pratica assai carente di effettività, essendo non facile intervenire, anche a mezzo di forza pubblica, per eseguire l'ordine di restituzione emesso dal giudice. E comunque già il tempo necessario per rinvenire il genitore, spesso in fuga col bambino e che cerca di occultarsi, produce effetti devastanti che la forzosa reintegrazione non sempre riesce a far superare. Inoltre appare ingiustificato che il reato di mancata esecuzione dolosa dei provvedimenti del giudice in materia di affidamento di minori sia perseguibile solo a querela del genitore affidatario a cui l'ordinamento attribuisce esclusivamente l'interesse alla tutela: il soggetto passivo del reato, in questi casi, non è tanto l'altro genitore quanto il minore stesso che è il principale interessato alla regolarità dei rapporti disciplinati dal giudice a garanzia dello sviluppo della sua personalità. Dovrebbe pertanto essere essenzialmente lui il titolare di un diritto di querela che, nel suo interesse, dovrebbe essere esercitata dal suo genitore o da altro soggetto che lo rappresenta: il che eviterebbe anche colpevoli disimpegni del genitore affidatario acquiescente nei confronti dell'attività illecita dell'altro genitore.

Assai più grave è la sottrazione internazionale di minori. La Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, aperta alla firma a L'Aja il 25 ottobre 1980, alla quale aderiscono attualmente più di 40 Stati nel mondo, assicura l'immediata restituzione del minore illecitamente sottratto ed il ripristino della situazione antecedente a tale sottrazione. Si può parlare di "sottrazione internazionale di minori" solo in presenza di due condizioni essenziali, precisate nel testo convenzionale:
quando colui che ha la potestà sul minore lo conduce con se all'estero senza alcuna autorizzazione;
quando il minore non viene ricondotto nel suo Paese di residenza abituale.
L'obiettivo prefissato non è quello di entrare nel merito delle decisioni emesse dalle Autorità competenti, quanto quello di avviare una procedura d'urgenza, che consenta l'immediato ripristino della situazione "quo ante".

Inoltre, la Convenzione in questione si pone lo scopo di garantire l'esercizio del diritto di visita a favore del genitore non assegnatario, impedendo, altresì che si vengano a strutturare nuovi equilibri e situazioni di fatto, differenti dal contesto in cui si trovava a vivere il , minore prima dell'evento traumatico della sottrazione.

Le condizioni per l'applicabilità della Convenzione sono le seguenti:

- che l'affidamento violato sia legalmente riconosciuto nello Stato di residenza abituale del minore prima della sottrazione;
- che tale diritto sia stato effettivamente esercitato prima della sottrazione;
- che il minore non abbia ancora raggiunto i 16 anni d'età;
- che non sia trascorso più di un anno dal momento dell'evento (sottrazione);
- che dalla restituzione non possa derivare alcun danno morale e materiale per il minore;
- che tale restituzione non violi i principi fondamentali dei Diritti dell'Uomo.
Elemento portante di tale Convenzione è il ruolo riservato alle Autorità Centrali.

L'intero capitolo II (artt.6 e 7) è dedicato alle Autorità Centrali che debbono cooperare nella soluzione di problemi che vanno dalla localizzazione dei minori sottratti o trattenuti illecitamente, allo scambio di informazioni circa il funzionamento della Convenzione ed alla rimozione degli ostacoli che si frappongono alla sua attuazione.

L'importanza delle Autorità Centrali è resa evidente anche in altri articoli (8,9,10,11,12 e 13) che attribuiscono ad esse i compiti di ricevere le domande (relative a minori sottratti o trattenuti in violazione dei provvedimenti giudiziari già emessi in materia di affidamento), di trasmettere informazioni sulla situazione dei minori, impegnandosi per un'immediata riconsegna degli stessi (la decisione deve essere adottata entro un periodo di sei settimane dall'inizio del procedimento).

Tutto l'operato di queste Autorità Centrali è improntato alla tutela del "superiore interesse del minore", da cui può derivare un ampio margine di discrezionalità nella valutazione delle singole fattispecie.

Le Autorità Centrali possono, inoltre, iniziare o favorire l'istituzione di procedure tese a tutelare l'esercizio del diritto di visita, come previsto dall'art.21.

L'attività svolta dalle AA.CC. si incentra su due fasi differenti: un tentativo di composizione amichevole della controversia (ruolo di conciliazione) e, diversamente, l'avvio di una procedura giudiziaria sommaria a carattere d'urgenza. .

L'Italia, con la legge 15 gennaio 1994, n.64, ha ratificato, insieme con altra Convenzione in materia minorile, quella sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. Con lo stesso testo di legge ha anche emanato le norme procedurali per ottenere in tempi rapidi una decisione giudiziaria in merito alla richiesta di rimpatrio proposta dall'omologa A.C. dello Stato richiedente. Con l'art.3, in particolare, viene istituita l'Autorità Centrale convenzionale, identificata nell'Ufficio Centrale della Giustizia Minorile del Ministero di Grazia e Giustizia.

L'Autorità Centrale svolge compiti di varia natura. Per lo svolgimento dei suoi compiti può avvalersi dell'Avvocatura dello Stato e dei Servizi minorili della Giustizia, nonché della Polizia di Stato o di altri enti che espletino i compiti prefissati nella Convenzione.

Il potere di promuovere il procedimento è riconosciuto al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, organo al quale si rivolge l'Autorità C entrale per l'apertura della procedura d'urgenza, avente natura non contenziosa, innanzi al Tribunale per i Minorenni del luogo dove si trova il minore (com'è noto, il Tribunale per i Minorenni è l'organo di maggiore competenza in materia, perché altamente specializzato nelle problematiche minorili).

La descritta procedura - strutturata in conformità a quella prevista dall'art.336 del codice civile, per i procedimenti in materia di esercizio della potestà dei genitori, e dall'art. 32, ultimo comma, della Legge n.184/83, per quanto attiene alla dichiarazione d'efficacia nello Stato dei provvedimenti emessi da autorità straniere - consente una più sollecita valutazione delle concrete fattispecie in questione, pur tenendo conto dell'esigenza di acquisire le controdeduzioni della persona che, in violazione del diritto di affidamento, ha presso di sé il minore.

Ricorrono, pertanto garanzie sufficienti a giustificare i provvedimenti d'urgenza previsti dalla Convenzione, anche se questi possono essere assunti in base ai principi di diritto di un altro Stato o tenendo conto di decisioni giudiziarie o amministrative straniere di cui si prende atto direttamente, senza esperire il previo formale riconoscimento.

La decisione è trasmessa immediatamente all'Autorità Centrale italiana, che avrà cura di notificarla all'omologa A.C. estera, nonché di svolgere tutte le incombenze derivantigli.

Avverso il decreto emesso dal Tribunale per i Minorenni, che è immediatamente esecutivo, può essere proposto ricorso per cassazione. La presentazione del ricorso non sospende l'esecuzione del decreto.

Le istanze, le comunicazioni ed ogni altro documento vanno inviate nella lingua originaria ed accompagnate da traduzione nella lingua dello Stato richiesto, ovvero, quando ciò sia difficilmente realizzabile, nella lingua francese o inglese (lingue ufficiali).

Attraverso un'apposita modulistica convenzionale internazionale, che si allega alla presente relazione, viene semplificata la procedura per la segnalazione del caso sia attivo che passivo.

I cittadini di ciascuno Stato contraente e le persone che vi risiedono stabilmente hanno diritto all'assistenza giudiziaria e giuridica nell'altro Stato contraente, a parità di condizioni rispetto ai cittadini di quest'ultimo Stato.

Per il nostro Paese è previsto che tutte le spese che derivano dall'esecuzione della Convenzione, comprese quelle di giustizia e di difesa in sede giudiziaria, siano totalmente a carico dello Stato, non avendo l'Italia posto riserve sull'art. 26 della Convenzione (limitazioni al principio della gratuità).

La Convenzione de l'Aja del 25 ottobre 1980 in materia di sottrazione internazionale di minorenni è entrata in vigore nel nostro Paese il l° maggio 1995.

L'Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile - quale Autorità Centrale convenzionale per l'Italia - nel periodo 1° maggio 1995 - 31 marzo 1996, ha esaminato complessivamente 94 casi, di cui n. 14 definiti ed n. 80 tuttora pendenti. Le richieste di intervento rivolte alle Autorità Centrali straniere sono state n. 65, mentre quelle ricevute sono state n. 29.

Dal punto di vista quantitativo si può constatare in via generale, tenuto conto del breve trascorso di tempo, un congruo utilizzo dello strumento convenzionale.

A tal proposito, occorre rilevare che l'apparente elevato numero di casi pendenti rispetto a quelli definiti non è da imputarsi ad inerzia istruttoria da parte di questo Ufficio, bensì alle insufficienti risposte fornite dalle omologhe Autorità Centrali straniere ed ai tempi non sempre brevi in cui le rispettive Autorità giudiziarie portano a compimento le procedure di competenza.

C'è da sottolineare che non pochi dei suddetti casi sono relativi a sottrazioni verificatesi anteriormente alla data (l0 maggio 1995) di entrata in vigore nel nostro Paese della Convenzione citata.

Conseguentemente, stante la irretroattività della Convenzione, ai sensi dell'art.35, l'intervento di questa A.C. si è sviluppato soprattutto con la finalità di ottenere - tramite le omologhe Autorità Centrali straniere - la tutela del diritto di visita a favore del genitore non affidatario del minore.

In tutti i casi cosiddetti "passivi", nei quali, cioè l'A.C. si adopera in funzione di una richiesta pervenuta dall'Estero, questo Ufficio si è attivato presso gli Organi giudiziari minorili con l'ausilio della Polizia di Stato (Servizio Interpol) e dei Servizi minorili dell'Amministrazione della Giustizia per l'avvio delle procedure d'urgenza finalizzate all'immediata restituzione del (o dei) minore coinvolto.

In non pochi casi, con viva soddisfazione, si è potuto garantire il rimpatrio del minore in tempi brevissimi, con piena garanzia sulla correttezza delle procedure adottate nella tutela piena dell'identità del minore.

Non altrettanto si può dire dei Paesi partners con cui si è avuto modo di rapportarsi in questi mesi di operatività, in quanto si è spesso avvertito il conflitto tra le diverse giurisdizioni interne vigenti in materia , nonché tra maniere diverse di intendere scopi e principi di uno stesso testo convenzionale.

Spesso si è assistito ad una sorta di difesa ad oltranza del proprio connazionale, anche laddove questi sia stato pienamente consapevole della illiceità della sottrazione dal lui compiuta.

Mentre a favore del proprio connazionale veniva garantita una sorta di impunità o l'emissione di ogni tipo di misure amministrativo-giudiziarie regolatrici della sua posizione originariamente illecita, per il nostro connazionale interessato a reclamare all'Estero il diritto di riottenere un figlio in affidamento, o la tutela dell'effettivo esercizio del diritto di visita, sono state spesso frapposte barriere di difficile superamento. Tra esse va annoverata, non ultima, la frequente, indispensabile necessità di avviare le procedure di rito solo attraverso un'obbligatoria assistenza legale, dai costi spesso inavvicinabili ai più.

Né l'accesso al gratuito patrocinio per i non abbienti (Legal Aid) ha sortito finora effetti modificativi del problema di fondo, data la sua scarsissima applicazione per ulteriori difficoltà frapposte dall'Autorità estera.

Non può negarsi, pertanto, che la prassi convenzionale finora non si è dimostrata strumento del tutto adeguato alla risoluzione di conflitti assai complessi, che richiederebbero la condivisione da parte degli Stati di principi e criteri più generali ed obiettivi, veramente tendenti alla piena tutela giuridica del minore coinvolto e non degli adulti che se ne contendono ad ogni prezzo la "proprietà" esclusiva.

TORNA SU