Per l'affidamento conta
la volontà del minore.

La tutela nelle violenze familiari - cap.3

Capitolo III
Tutela e rimedi in sede penale e civile contro la violenza in famiglia

 

1. Introduzione: La tutela giuridica contro la violenza in famiglia

Abbiamo evidenziato nel capitolo primo le radici sociologiche del fenomeno della violenza in famiglia, con le sue manifestazioni tipiche. Nel capitolo secondo abbiamo enucleato le fattispecie penali maggiormente rilevanti in tema di violenza in famiglia. Pare opportuno, a questo punto, tracciare le linee d'intervento dell'ordinamento giuridico a tutela della vittima di violenza in famiglia.

Il diritto incontra non poche difficoltà nel prevenire e sanzionare le violenze nell'ambito della famiglia. (1) La legge, infatti, interviene soltanto quando l'equilibrio è ormai compromesso e si sono già innescati, nell'ambito della famiglia, quei meccanismi che conducono inevitabilmente alla rottura definitiva dei vincoli affettivi. Il diritto è infatti restio a frapporsi nei contrasti intrafamiliari, se non quando le vittime siano dei minori, o, comunque, si configurino ipotesi di gravi reati (ad esempio maltrattamenti o violenze sessuali).

Partendo dall'assunto che "l'individuo è tale, con tutte le prerogative garantite dall'ordinamento, anche all'interno della famiglia, cosicché le norme poste a tutela della persona non devono trovare alcun ostacolo nelle mura domestiche", (2) si è riusciti a spostare la priorità della tutela giuridica verso gli interessi ed i diritti del singolo, rispetto agli interessi della famiglia. (3)

Pertanto sia la dottrina che la giurisprudenza hanno attribuito una valenza più pregnante alla personalità ed ai diritti del singolo coniuge all'interno della coppia, facendo leva sui diritti fondamentali della persona e ritenendo necessaria una soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner. Date queste premesse, è possibile parlare oggi di tutela risarcitoria a favore di un coniuge se l'altro ha violato diritti e doveri di rilevanza costituzionale (in primis ex art. 29 Cost.). (4)

Nell'ordinamento italiano esistono due binari per la tutela del soggetto vittima di violenze in famiglia, ovvero quello penale e quello civile. Se la violenza integra gli estremi di un reato, come esposto nel capitolo secondo, la vittima può chiedere che l'ordinamento intervenga per punire l'aggressore tramite gli strumenti della giustizia penale.

In alternativa, la vittima può decidere di agire di fronte al giudice civile per ottenere, tramite una sentenza di separazione o di divorzio, la rottura del vincolo coniugale e quindi manifestare la volontà di vivere separati. Alternativamente o cumulativamente, potrà richiedere, se ne esistono i presupposti, la cessazione del comportamento molesto e/o violento (tutela inibitoria) ed il pagamento di somme di denaro a titolo di risarcimento (tutela risarcitoria).

Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento danni da parte del coniuge, questa può avvenire sia a seguito di un procedimento penale, laddove il reato sia stato causa di danni liquidabili in sede civile (si pensi al caso di una sentenza di condanna del coniuge ex art. 570 c.p. o 572 c.p. (5)), oppure nel caso di un giudizio di separazione laddove la violazione dei doveri coniugali (obbligo di assistenza morale e materiale, obbligo di fedeltà, obbligo di collaborazione, etc.) non sia solo a fondamento del giudizio di addebitabilità (6) della separazione, ma anche di una separata richiesta di danni in quanto il coniuge incolpevole ha subito un danno ingiusto dal comportamento dell'altro coniuge.

Le categorie di danno che attualmente dottrina e giurisprudenza riconoscono sono:

- il danno patrimoniale (ex art. 2043 c.c.);

- il danno alla salute o danno biologico, che trova fondamento nell'interpretazione congiunta delle norme ex art. 2043 c.c. ed ex art. 32 Cost.;

- il danno non patrimoniale, o danno morale (ex art. 2059 c.c.);

- il danno esistenziale, che trova fondamento nell'interpretazione congiunta delle norme ex art. 2043 c.c. e di tutte le norme di rango costituzionale posta a tutela dei diritti della persona - e nel caso del coniuge ci si riferisce all'art. 2 o all'art. 29 Cost. Ciò in quanto l'art. 2043 c.c. costituisce un principio risarcitorio generale, valido per tutte le situazioni soggettive costituzionalmente garantite.

Il codice civile contiene, infatti, quale principio generale di responsabilità, la regola per cui "qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno", secondo quanto previsto dall'art. 2043 c.c. In questa norma è stato ravvisato il divieto di cagionare danno agli altri, il cosiddetto principio del neminem ledere. La vittima della violenza familiare (fisica o psichica (7)) deve provare che ricorrano i seguenti elementi:

- il dolo, ovvero la volontà e l'intenzione dell'aggressore di perpetrare la violenza, oppure la colpa (alternativamente al dolo), se l'aggressore, pur non avendo agito intenzionalmente, ha tenuto un comportamento non diligente;

- il nesso di causalità, ovvero che le conseguenze dannose della violenza sono riconducibili alla condotta, dolosa o colposa, dell'aggressore;

- l'ingiustizia, ovvero la violazione di un interesse giuridicamente rilevante, come ad esempio un diritto costituzionalmente garantito;

- il danno, per cui la vittima deve fornire la prova della modificazione peggiorativa del proprio stato patrimoniale e/o delle proprie condizioni psichiche o fisiche, o deve comunque dimostrare che la propria vita è mutata in senso negativo.

Quando siano provati la condotta dolosa o colposa dell'agente, nonché il nesso di causalità e il danno ingiusto, la vittima può vedersi riconosciute delle somme di denaro a titolo di danno patrimoniale e/o non patrimoniale.

Per quanto riguarda la riconoscibilità di un danno patrimoniale, si nota che la violenza agita (fisica o psichica) potrà avere conseguenze di tipo patrimoniale, quali esborsi per cure e trattamenti medici della vittima. Possono inoltre aversi riflessi negativi sulla capacità di produrre reddito della vittima.

Per quanto riguarda la riconoscibilità del danno biologico, o meglio del danno alla salute, accertato da un punto di vista medico legale, questo ricorrerà laddove, a seguito della violenza, la vittima abbia sviluppato delle patologie. Il danno biologico, infatti, consiste nella menomazione dell'integrità fisica e/o psichica in sé considerata, a prescindere dalla sussistenza di una diminuzione della capacità di reddito. Il danno biologico di natura psichica, o danno psichico, costituisce una conseguenza tipica delle violenze psicologiche o morali. Per ottenere questo tipo di risarcimento, si deve dimostrare un peggioramento della salute mentale della vittima, ovvero la sussistenza di una patologia.

La vittima potrebbe aver diritto anche a chiedere i danni non patrimoniali che l'agente potrebbe essere obbligato a risarcire, in particolare quelli morali. Il danno morale, così come definito dalla Corte costituzionale, consiste nel perturbamento dell'animo e nella sofferenza morale che non degenera in un danno psichico. Tuttavia, nel sistema attuale, il risarcimento di questo danno è condizionato alla configurabilità, anche in astratto, di un reato (art. 2059 c.c.). Ciò ne limita fortemente l'applicabilità a tutti quei casi in cui la vittima abbia subito varie forme di pregiudizio o un danno morale, ma non è stata in senso tecnico vittima di reato.

Allo stato attuale, le categorie tradizionali del danno biologico e del danno morale risultano insufficienti a dare adeguata risposta risarcitoria a fenomeni in cui il comportamento dannoso incide negativamente sulla personalità della vittima, calpestandone la dignità o modificandone sensibilmente il modo di vivere (si pensi a tutti quei casi di mobbing familiare (8)). Infatti, da un lato il danno biologico risulta circoscritto nei suoi contenuti ai fenomeni accertabili e valutabili sotto il profilo della medicina legale e della psichiatria, dall'altro lato il danno morale, oltre ad essere confinato alle fattispecie configuranti reato, risulta anche limitato nei suoi contenuti, essendo inteso dalla stessa Corte costituzionale quale "danno che riguarda il solo perturbamento morale transuente." (9)

È per questo che prima la dottrina, e poi la giurisprudenza, hanno sviluppato una nuova categoria di danno esistenziale (10) che consiste in "ogni lesione di diritti comunque fondamentali della persona, risolventesi in un danno esistenziale ed alla vita di relazione." (11) Il risarcimento del danno esistenziale trova le sue radici nell'art. 2043 c.c. e, fatto di notevole importanza, è stato riconosciuto anche nell'ambito dei rapporti personali tra coniugi e tra genitori e figli. (12) Infatti analogo discorso in tema di risarcibilità del danno può essere ipotizzato nei casi in cui si dimostri la responsabilità per fatto illecito del genitore nei confronti del figlio minore che nasca dalla violazione (13) degli obblighi di cura, di educazione e di mantenimento previsti dal legislatore e dalla Costituzione (in primis ex art. 30 Cost.) in capo ad ogni genitore. (14)

 

2. I rimedi in sede penale

In ambito penale è importante tenere presente sia le misure cautelari che il giudice, in presenza dei necessari presupposti, può emettere nei confronti dell'indagato o imputato, sia le pene accessorie che seguono di diritto le pene principali irrogate a seguito di condanna nei confronti dell'autore della violenza.

2.1. Le misure cautelari

Le misure cautelari si distinguono in personali e reali. Ambedue hanno in comune la finalità cautelare, consistente nella tutela di valori processuali o extra processuali, ossia di difesa sociale. Il criterio di differenziazione tra i due tipi di misure risiede nel loro oggetto: nella misure personali, oggetto è la persona indagata o imputata, la quale vede temporaneamente soppressa o limitata la propria libertà di locomozione o altri diritti e facoltà inerenti la propria persona. Oggetto delle misure reali è invece una cosa, ovvero un bene mobile o immobile che viene sottoposto a sequestro, preventivo o conservativo.

Le misure cautelari personali consistono in limitazioni della libertà personale (fisica) o della sfera giuridica dell'individuo, disposte da un giudice per finalità di cautela processuale, anche nella fase investigativa.

A tal proposito, significativa è la riserva di legge assoluta prevista all'art. 272 c.p.p., che dispone che "le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo". Non sembra si possa dubitare del significato garantistico del principio così enunciato, sotto il profilo della tassatività, in quanto diretto a vincolare rigorosamente alla previsione legislativa l'esercizio della discrezionalità del giudice in materia di limitazioni alle libertà della persona. (15)

Le misure cautelari personali si distinguono in misure coercitive, che incidono sulla libertà fisica o di locomozione spaziale dell'indagato (sopprimendola, limitandola o semplicemente condizionandola), ed in misure interdittive. Queste ultime incidono solo sulla sfera giuridica, impedendo o limitando l'esercizio di taluni diritti o facoltà attinenti alla sfera personale (ma non a quella reale-patrimoniale).

Le misure cautelari (coercitive ed interdittive) sono applicabili solo se ricorrono determinati presupposti. Questi condizionano non solo l'iniziale irrogazione della misura, ma anche la persistenza della stessa, dovendo essere revocata se i presupposti vengono meno, ovvero modificata o sostituita se i presupposti mutano (art. 299 c.p.p). L'art. 273 c.p.p., comma 1, individua quali condizioni generali di applicabilità la sussistenza a carico del destinatario di gravi indizi di colpevolezza, con l'evidente proposito di accentuare la consistenza della piattaforma indiziaria indispensabile per l'adozione di qualunque misura cautelare. (16) Sul piano del periculum libertatis, l'art. 274 c.p.p. predetermina le esigenze cautelari, che solo concorrendo con il presupposto rappresentato dai gravi indizi di colpevolezza devono considerarsi di per sé idonee a giustificare l'adozione delle misure cautelari. Queste esigenze sono: il pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova previsto all'art. 274 lettera a) c.p.p; il pericolo di fuga, previsto all'art. 274 lettera b) c.p.p.; il pericolo della reiterazione dei reati, previsto all'art. 274 lettera c) c.p.p.

Tra le disposizioni generali relative alle misure cautelari personali vi sono anche le regole dettate dall'art. 278 c.p.p. per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure stesse. Sia per le misure coercitive che per quelle interdittive, risulta generalizzato, sotto il particolare profilo delle condizioni di applicabilità, il limite oggettivo che le une e le altre possano applicarsi soltanto "quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni" (artt. 280 e 287 c.p.p).

Per quanto riguarda l'esercizio della discrezionalità del giudice, una volta accertata la sussistenza di almeno una delle esigenze cautelari descritte all'art. 274 c.p.p., per la scelta delle misure da adottarsi in concreto, l'art. 275 c.p.p. detta alcuni criteri fondamentali, ispirati alla logica della adeguatezza e della proporzionalità. In forza del principio di adeguatezza, il giudice, nell'individuare quale misura debba venire disposta, sarà obbligato a tener conto della "specifica idoneità di ciascuna, rapportandola alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare in concreto" (art. 275 comma 1 c.p.p.), con l'ovvia conseguenza che dovrà scegliersi la misura meno gravosa per l'imputato tra quelle di per sé idonee a fronteggiare le suddette esigenze.

Al principio di adeguatezza si raccorda, con funzione integrativa, il principio di proporzionalità, in base al quale ogni misura "deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata" (art. 275 comma 2 c.p.p).

 

2.1.1. Le misure coercitive

Circa la fisionomia della diverse misure coercitive attraverso le quali si realizza il principio di gradualità, va rilevato che esse appaiono ordinate in termini di progressiva afflittività: a cominciare da misure di contenuto meramente obbligatorio, per finire alle vere e proprie misure detentive. (17) All'interno di questa ideale gerarchia si trovano prima le misure non custodiali, e successivamente quelle custodiali. Le misure sono tra loro opportunamente graduate per intensità, fino alla custodia in carcere che è la più grave. Tra le misure non custodiali rientrano: il divieto di espatrio (art. 281 c.p.p.), l'obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria (art. 282 c.p.p.), il divieto di dimora (art. 283 c.p.p.), l'obbligo di dimora in un dato Comune (art. 283 c.p.p.). Nel secondo gruppo rientrano gli arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.), la custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p.) e la custodia in luogo di cura (art. 286 c.p.p.). Quest'ultime comportano sempre la soppressione della libertà fisica, dovendo l'interessato rimanere ristretto in un istituto carcerario, in un presidio ospedaliero o in una privata dimora.

In tema di violenza familiare, prima dell'introduzione della nuova misura cautelare ex art. 282-bis c.p.p., la misura più idonea ad evitare la reiterazione delle violenze era il divieto di dimora (ex art. 283 c.p.p. comma 1).

 

2.1.1.1. Il divieto di dimora ex art. 283 comma 1 c.p.p.

L'articolo 283 c.p.p. così recita: "con il provvedimento che dispone il divieto di dimora, il giudice prescrive all'imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l'autorizzazione del giudice che procede." Come si legge testualmente, il divieto di dimora consiste nella proibizione di dimorare in una determinata località (Comune o sua frazione) e quindi nella prescrizione di non accedervi, senza preventiva autorizzazione del giudice. Al di fuori di tale ambito territoriale, la persona sottoposta a tale misura gode di piena libertà di circolazione. Il divieto di dimora, in conformità del principio di personalizzazione delle misure, deve essere armonizzato con le esigenze d'alloggio, di lavoro e di assistenza dell'imputato, salvaguardandole ove possibile.

La misura è idonea a soddisfare le esigenze cautelari di impedire l'inquinamento delle fonti di prova e la reiterazione del reato, quando i relativi pericoli siano collegati a situazioni o a circostanze ambientali locali ed appaia sufficiente l'allontanamento dell'interessato.

Come si può notare, la misura del divieto di dimora non ha in realtà come scopo primario quello di tutelare l'integrità psico-fisica di coloro che rimangono nella dimora, bensì quello di allontanare il soggetto che in quella dimora potrebbe causare un inquinamento delle prove. È possibile che, nell'ambito delle violenze familiari, prima dell'introduzione della nuova misura cautelare prevista all'art. 282 bis c.p.p., un qualche effetto indiretto teso a tutelare la vittima della violenza lo si ottenesse anche utilizzando questa misura. (18)

Tuttavia, tenendo presente l'essenza del principio di adeguatezza e proporzionalità, è "come dire che il giudice, nel determinare la misura meglio idonea ad essere adottata nella singola fattispecie, dovrà tener conto non solo dell'attitudine della misura stessa a soddisfare le esigenze cautelari, verificate caso per caso, ma anche della sua congruità, sotto il profilo della deminutio libertatis che ne deriva all'imputato, rispetto alla gravità del fatto addebitatogli, e quindi al quantum di pena che in concreto possa essergli imposto." (19)

Ne deriva che il divieto di dimora non aveva intrinsecamente l'attitudine a soddisfare le esigenze cautelari di tutela dell'integrità fisica e psichica delle persone offese, né la misura era sufficientemente congrua a scongiurare tutti i pericoli derivanti dalla mancata limitazione della libertà di locomozione del soggetto violento relativamente alla casa familiare, al luogo di lavoro, alla scuola dei minori e ad altri luoghi. Infatti, talvolta, oltre al divieto di dimora, si doveva anche emettere la misura dell'obbligo di dimora se si voleva che la persona violenta non si avvicinasse a determinati luoghi e rimanesse all'interno di un certo perimetro. È chiara la differenza con la nuova misura, che è invece formulata per agire su tutti i fronti ed ha come obbiettivo quello di tutelare in primis le vittime di violenza, tramite la misura dell'allontanamento (che diventa mezzo e non fine). Inoltre, come si vedrà infra, essa è costruita per apportare una tutela simultanea su più fronti, al fine di fronteggiare il problema in modo più completo.

Sembra pertanto che la nuova misura dell'allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.), introdotta con la legge 5 aprile 2001, sia molto più specifica e diretta nell'individuare il fine della misura medesima, ovvero "l'incolumità della persona offesa", e le modalità della sua applicazione, ovvero le necessarie limitazioni alla libertà di locomozione dell'imputato o dell'indagato. (20)

 

2.1.2. Le misure interdittive

Le misure interdittive, a differenza di quelle coercitive, incidono non tanto sulla libertà fisica dell'imputato, quanto piuttosto sulle attività che ne costituiscono la proiezione esterna. La loro applicazione, infatti, evita all'imputato le restrizioni, più o meno rilevanti, della libertà fisica (tipiche delle misure coercitive), privandolo soltanto della possibilità di svolgere determinate funzioni, attività o professioni. Tale caratteristica riveste una notevole importanza quando l'imputazione concerne reati commessi nello svolgimento delle stesse funzioni, attività o professioni che vengono inibite.

Esse possono quindi trovare applicazione solo per quei reati in cui le qualità soggettive sospese rilevano in modo specifico, quali particolari modalità della condotta criminosa o in funzione del bene giuridico protetto dal singolo reato. (21)

Poiché gli articoli dal 272 al 279 del c.p.p. sono contenuti nelle disposizioni generali, si deve ritenere che essi si applichino, indistintamente, sia alle misure coercitive che alle misure interdittive. Pertanto anche per le misure interdittive valgono i generali presupposti relativi alla gravità del reato (delitto punibile con pena massima edittale superiore a tre anni), ai gravi indizi di colpevolezza ed alle esigenze cautelari. In questi casi, le esigenze cautelari che inducono all'adozione di una misura - di regola previste dalle lettere a) e c) dell'art. 274 c.p.p. - sono sufficientemente garantite e tutelate proprio privando l'imputato della capacità di svolgere quella attività il cui abuso ha reso possibile, agevolato o anche soltanto occasionato la realizzazione della fattispecie criminosa contestata. (22) Invece, non sembra che le misure interdittive siano applicabili ai casi in cui vi sia pericolo di fuga (art. 274 lettera b) c.p.p.), trattandosi di un'esigenza che postula di per sé misure atte a comprimere la libertà di movimento del soggetto. (23)

La possibilità di applicare una misura interdittiva si fa apprezzare perché consente, nell'ottica del principio di adeguatezza delle misure cautelari, di evitare il ricorso a misure coercitive nei casi in cui queste sarebbero inutilmente vessatorie e dunque eccessive. Il collegamento tra misura interdittiva ed attività abusata va tenuto presente per individuare i reati nei cui confronti può essere utile, sotto il profilo cautelare, adottare le misure ex artt. 288, 289 e 290 c.p.p.

Il contenuto delle misure interdittive, previste nel codice di procedura penale agli artt. 288, 289 e 290 c.p.p., corrisponde a quello delle pene accessorie disciplinate agli artt. 28, 30, 32-bis e 34 c.p. Poiché con l'applicazione delle misure interdittive sono integralmente salvaguardate le esigenze preventive e cautelari che costituivano in precedenza la finalità dell'applicazione provvisoria di pene accessorie, l'art. 217 disp.coord. ha abrogato l'art. 140 c.p. e ogni altra disposizione che preveda l'applicazione provvisoria di pene accessorie. Pertanto le finalità istruttorie e preventive sono ora integralmente garantite con la disciplina delle misure interdittive.

Le misure interdittive previste dal codice di procedura penale sono: la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori all'art. 288 c.p.p, la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289 c.p.p.) e il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (art. 290 c.p.p.). Qui di seguito si esamina soltanto la misura che ha attinenza ai casi di violenza familiare, ovvero la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori.

 

2.1.2.1. La sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori ex art. 288 c.p.p.

L'art. 288 c.p.p. afferma che: "con il provvedimento che dispone la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori, il giudice priva temporaneamente l'imputato, in tutto o in parte, dei poteri ad essa inerenti.

Qualora si proceda per un delitto contro la libertà sessuale, ovvero per uno dei delitti previsti dagli articoli 530 e 572 del codice penale, commesso ai danni dei prossimi congiunti, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'art. 287 comma 1."

La sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori, (24) ricalcata sull'analoga figura delineata nel progetto del 1978, si ispira in modo evidente alla vecchia disciplina che scaturiva dal disposto degli artt. 34 e 140 c.p. Resta però inespresso il riferimento enunciato dall'art. 34 c.p. in ordine ai delitti commessi con abuso della potestà dei genitori, ma, "sembra che la natura stessa della cautela postula una ricongiungibilità tra misura e pericolo che il permanere di quella potestà determina per gli interessi del minore: abuso commesso o abuso potenziale, costituiscono, a ben guardare, la naturale proiezione finalistica della misura. Ciò si coglie dall'altra parte anche alla luce della rassegna di reati che il comma 2 dell'art. 288 c.p.p. opera per descrivere ipotesi in cui la misura può essere applicata anche al di fuori di limiti di pena indicati dall'art. 287 c.p.p. Si è notato, a quest'ultimo riguardo, come siano state irragionevolmente escluse dall'ambito applicativo della misura alcune fattispecie, come la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) o figure di sottrazione di minore (artt. 573 e 574 c.p.), che pure potrebbero consigliare l'impiego dello strumento interdittivo." (25)

Significativamente rispettosa del principio di adeguatezza e come tale condivisibile, è, invece, la possibilità di calibrare il quantum dell'interdizione in funzione delle esigenze cautelari, giacché al giudice è consentito di sospendere in tutto o in parte l'esercizio dei poteri che concorrono a formare la potestà genitoriale. La temporanea perdita può, quindi, riguardare specifici segmenti di potere, un singolo potere e non altri, oppure l'applicazione della misura ad un figlio e non ad altri.

Per quanto riguarda la durata, l'art. 308 c.p.p. prevede che le misure interdittive scadano dopo due mesi, facendo salva la possibilità di rinnovarle, ma soltanto se le stesse siano state disposte per esigenze probatorie. Due sono quindi gli aspetti che compromettono la razionalità del sistema: da un lato la dimensione del termine, così ristretta da rendere la misura del tutto inidonea a soddisfare le esigenze cautelari, salvo ipotesi limite che, proprio perché tali, non possono costituire una adeguata base di riferimento. Si giunge al paradosso che il più breve dei termini previsti in tema di durata massima della custodia cautelare (ovvero tre mesi) è maggiore di quello che complessivamente consente l'operatività di una misura interdittiva, quasi a lasciar presupporre che il bene della libertà personale possa ricevere compressione maggiore rispetto ai valori, certamente diversi, che le misure interdittive possono coinvolgere. Ne deriva, quindi, l'assurdo di consentire l'applicazione della misura interdittiva per impedire che l'imputato possa commettere reati della stessa specie di quello per cui si procede, ma, al tempo stesso, si presume, iuris et de iure, che un siffatto pericolo cessi dopo sessanta giorni.

Per la determinazione del contenuto della misura prevista dall'art. 288 c.p.p., bisogna avere riguardo al complesso dei poteri e delle facoltà inerenti alla potestà dei genitori, puntualmente disciplinati nel titolo IX del libro I del codice civile, dagli artt. 315 e seguenti. (26) Sono questi i poteri del cui esercizio il giudice priva temporaneamente (in tutto o in parte) l'imputato.

La misura appare utile quando, ad esempio, si vuole evitare che l'imputato possa porre in essere un'attività direttamente o indirettamente pericolosa per l'inquinamento del materiale probatorio: la sospensione della potestà dei genitori può contribuire, infatti, a sottrarre chi vi è soggetto a possibili intimidazioni (di natura psicologica od economica), che gli impedirebbero di deporre liberamente in un processo a carico del genitore.

 

3. Le pene principali

Il codice penale elenca le pene principali all'art. 17 c.p. Per i delitti esse consistono nell'ergastolo, nella reclusione e nella multa; per le contravvenzioni consistono nell'arresto e nell'ammenda. Secondo l'art. 20 del c.p. le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali (27) della sentenza stessa.

Poiché le pene principali sono già state esposte nella trattazione specifica dei singoli reati, in questa sede ci si limita ad analizzare le pene accessorie che si accompagnano, di diritto o a discrezione del giudice, a determinate tipologie di reati.

3.1. Le pene accessorie

Un tempo le pene accessorie venivano utilizzate come strumenti sanzionatori anticipatori: con le modifiche apportate all'art. 140 c.p. ed all'art. 301 c.p. ad opera della legge n. 689 del 1981, che ha introdotto le misure interdittive, la situazione è cambiata.

Le pene accessorie sono misure afflittive che comportano una limitazione di capacità, attività o funzioni, accrescendo dunque l'afflittività della stessa pena principale, e presuppongono sempre la condanna ad una delle pene prevista nell'art. 17 c.p. (l'ergastolo, la reclusione, l'arresto, la multa o l'ammenda). Nella maggior parte dei casi, le pene accessorie hanno finalità special preventiva, nel senso non tanto della rieducazione quanto della obbiettiva eliminazione di quelle condizioni che potrebbero consentire la ricaduta nel reato. (28)

Ne sono caratteri normali: l'automaticità, nel senso che di regola conseguono di diritto alla condanna per la pena principale, secondo quanto previsto dall'art. 20 c.p.; la defettibilità, in quanto è prevista l'estensione ad esse della sospensione condizionale della pena principale. Possono essere temporanee o perpetue; se temporanea, la durata è fissata dalla legge (secondo l'art. 29 comma 1 c.p.), altrimenti è eguale a quella della pena principale inflitta o che dovrebbe scontarsi nel caso di conversione.

Pene accessorie previste dal codice penale per i delitti, all'art. 19 comma 1, sono: l'interdizione dai pubblici uffici, l'interdizione dall'esercizio di una professione o arte, l'interdizione legale, l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e imprese, la incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione, la decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori. Le pene accessorie per le contravvenzioni previste all'art. 19 comma 2 c.p. sono la sospensione dall'esercizio di una professione o arte e la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e imprese.

Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza di condanna.

Esistono anche pene accessorie previste in leggi speciali, quali ad esempio l'inabilitazione temporanea all'esercizio di un'impresa commerciale a seguito di bancarotta.

In tema di pene accessorie che conseguono di diritto a seguito della condanna per un reato legato alla violenza familiare, quelle che qui interessano sono la decadenza dalla potestà dei genitori e la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori (ex art. 34 c.p.).

 

3.1.1. La pena accessoria della decadenza dalla potestà parentale e gli artt 34 c.p e 32 comma 2 c.p.

L'art. 34 c.p., la cui rubrica parla di "decadenza dalla potestà dei genitori e sospensione dall'esercizio di essa", non elenca gli specifici casi nei quali la condanna importa la decadenza dalla potestà dei genitori, ma rimanda alla legge la sua determinazione. L'articolo così dispone:

"La legge determina i casi nei quali la condanna importa la decadenza dalla potestà dei genitori.

(Omissis)

La decadenza dalla potestà dei genitori importa anche la privazione di ogni diritto che al genitore spetti sui beni del figlio in forza della potestà di cui al titolo IX del libro I del codice civile.

(Omissis)

Nelle ipotesi previste dai commi precedenti, quando sia concessa la sospensione condizionale della pena, gli atti del procedimento vengono trasmessi al tribunale dei minorenni, che assume i provvedimenti più opportuni nell'interesse dei minori."

Trattasi di una pena accessoria propria di coloro che rivestono la qualità di genitori naturali o adottivi, i quali sono privati di ogni diritto ad essi spettante in merito alla rappresentanza e all'amministrazione degli interessi e dei beni del figlio in base alle norme del titolo IX del libro I del codice civile (artt. 320 e 324 c.c.). (29)

La pena accessoria consegue automaticamente.

La norma dell'art. 34 risulta sostituita, nei suoi primi quattro commi, ad opera dell'art. 122 l. mod.sist.pen., che ne ha adeguato il testo in base ai nuovi istituti della riforma del diritto di famiglia di cui alla legge 19 maggio 1975, n. 151, eliminando ogni riferimento all'autorità maritale ed alla patria potestà.

Il quinto comma è stato invece aggiunto dall'art. 5 della legge 7 febbraio 1990, n. 19. Tale articolo, nell'estendere alle pene accessorie la sospensione condizionale della pena, ha disposto che, nelle ipotesi di decadenza o sospensione della potestà genitoriale e di contestuale concessione del beneficio della sospensione condizionale, gli atti siano trasmessi al competente Tribunale per i Minorenni per l'adozione delle misure più opportune nell'interesse dei minori.

La decadenza della potestà dei genitori consegue, innanzitutto, nel caso di condanna all'ergastolo ex art. 32 comma 2 c.p.

In tema di reati familiari, alcuni dei casi indicati dalla legge che prevedono esplicitamente la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale sono previsti dall'art. 609 nonies c.p., in tema di violenza sessuale, per cui la condanna per alcuno dei delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609 quinquies e 609-octies c.p. comporta la perdita della potestà del genitore quando la qualità di genitore è elemento costitutivo del reato. Si è osservato che in realtà l'articolo non vuole limitare l'applicabilità della pena accessoria soltanto al caso in cui la qualità di genitore è elemento costitutivo del reato, bensì anche qualora quest'ultima sia soltanto circostanza aggravante, con esiti analoghi a quelli dell'abrogato art. 541 c.p.: si spiegherebbe così il richiamo all'art. 609-ter c.p., che contiene l'elenco delle circostanze aggravanti. (30) Il contenuto della pena accessoria in oggetto riproduce il modello delineato dall'art. 34 c.p., che prevede appunto la decadenza della potestà dei genitori (oltre alla sospensione dell'esercizio della stessa), ossia la perdita dei poteri che la legge riconosce ai genitori nei confronti del figlio.

Ancora, l'art. 569 c.p. prevede la pena accessoria della perdita della potestà dei genitori in tema di delitti contro lo stato di famiglia (ex artt. 566, 567, 568 c.p.) ed in tema di incesto (ex art. 564 comma 4 c.p.).

In tutti i casi la sanzione ha durata perpetua, in considerazione delle ragioni di tutela dei minori cui essa assolve a fronte di ipotesi delittuose così gravi.

Il terzo comma dell'art. 34 c.p., che prevede la privazione di ogni diritto spettante al genitore sul figlio, si riferisce al diritto di amministrare i beni del minore (ex art. 320 c.c.) ed all'usufrutto legale sui medesimi beni (ex art. 324 c.c.).

È discusso se il genitore perda solo le potestà attribuitegli dalla legge sotto il profilo di diritti o facoltà, conservando pur sempre nei confronti del figlio quelle potestà che si traducono sostanzialmente in un dovere (ad esempio secondo quanto previsto dall'art. 147 c.c.). L'inosservanza della pena accessoria della perdita della potestà dei genitori può integrare il delitto di cui all'art. 389 c.p., (31) che prevede la reclusione da due a sei mesi.

 

3.1.2. L'estendibilità della decadenza della potestà agli altri figli nei casi di reati contro minori

Come evidenziato supra, la decadenza dalla potestà genitoriale può conseguire come pena accessoria (ex art. 34 c.p.). È interessante esaminare la giurisprudenza e i casi in cui la misura è stata applicata, ad esempio in tema di incesto (32) e di abuso sessuale, anche quando il genitore non è l'autore del reato, perché commesso da terzi, ma è comunque colpevole di aver tenuto una condotta omissiva, consapevole. (33) Altri esempi si possono avere nei casi di violenza assistita, (34) che si palesa quando i maltrattamenti sono posti in essere tra adulti, ma, turbando l'atmosfera familiare, possono concretare un comportamento gravemente pregiudizievole sui figli che vi assistono, tanto da consentire la decadenza dalla potestà parentale. (35) Infine, deve decadere dalla potestà genitoriale il genitore che giunga a compiere il reato di tentato omicidio verso i figli. (36) Tutti questi casi testimoniano la gravità della situazione richiesta per privare un genitore della sua titolarità.

Interessante è l'esame degli orientamenti giurisprudenziali in ordine al problema se la pena accessoria in esame si estenda a tutti i figli minori del genitore condannato, ovvero rimanga circoscritta al singolo minore rimasto vittima di abuso.

Per la non automatica estensione della pena accessoria della decadenza della potestà genitoriale a tutti i figli minori si schiera il Tribunale per i Minorenni di Roma in un decreto del 12 dicembre 1985. Si sostiene in tale decreto che "benché la decadenza dalla potestà genitoriale pronunciata nei confronti della figlia minore, a norma dell'art 34. c.p., dal giudice penale come pena accessoria a seguito di condanna del padre per il delitto di incesto, non determini di per sé l'automatica decadenza del medesimo genitore dalla potestà nei confronti degli altri figli, tuttavia, qualora dalla sentenza penale emerga che il genitore ha tenuto, anche nei confronti di una sola delle figlie, una condotta gravemente riprovevole ed altamente lesiva della moralità familiare e dei più elementari doveri parentali, ben può la decadenza essere pronunciata nei confronti di tutta la prole configurandosi il pericolo concreto ed attuale di un grave pregiudizio irrimediabile a carico dei figli."

Secondo un successivo decreto (del 20 luglio 1992) dello stesso Tribunale per i Minorenni di Roma, la decadenza dalla potestà parentale pronunciata in sede penale come pena accessoria si estende a tutti i figli minori del condannato, e non rimane circoscritta al singolo minore rimasto vittima degli abusi paterni. (37) Il Tribunale rileva che "vista alla luce dell'attuale concetto di diritto all'educazione, spettante ai figli minori di età, e quindi come potere dovere, come funzione od officium, che trascende, come tale, gli interessi egoistici del titolare, la potestà genitoriale non ha più i contenuti autoritaristici di un tempo, e non può non avere, per sua natura, una portata globale (cioè ricomprendere nel suo oggetto e nelle sue finalità tutti i figli minori, sia come individui singoli, che nel loro insieme di fratelli) dato che nella sua specifica finalità educativa, essa si caratterizza fondamentalmente come compito di guida, esempio teorico e pratico di vita, e quindi modello di identificazione. E ciò non per l'uno o per l'altro dei figli, a discrezione del genitore titolare della potestà stessa, bensì per tutti i figli medesimi, visti e considerati e trattati in modo non discriminatorio (requisito, questo, notoriamente richiesto a pena di fallimento del compito educativo). È assurdo e impensabile, pertanto, che possa essere in qualche modo o parzialmente considerato un modello educativo e da imitare, per qualsivoglia suo figlio minore, quel padre che, come nella specie, sia stato condannato perché è stato riconosciuto colpevole di aver abusato sessualmente della figlioletta fin da quando aveva nove anni."

 

3.1.3. La sospensione dalla potestà genitoriale ex art. 32 comma 3 c.p. ed ex art. 34 comma 2 e 4 c.p.

L'art. 32 c.p. così recita: "Il condannato all'ergastolo è in stato di interdizione legale.

La condanna all'ergastolo importa anche la decadenza dalla potestà dei genitori.

Il condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni è, durante la pena, in stato di interdizione legale; la condanna produce altresì, durante la pena, la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori, salvo che il giudice disponga altrimenti."

Come si può notare, la sospensione dalla potestà genitoriale non consegue automaticamente: il giudice è libero di determinare che alla condanna della reclusione per un tempo pari o superiore ai cinque anni non consegua la sospensione della potestà genitoriale.

La sospensione consegue anche nell'ipotesi di delitti commessi con abuso di autorità parentale (ex 34 comma 2 c.p.) e può essere inflitta per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta. L'art. 34 comma 2 prevede che: "la condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori importa la sospensione dall'esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta". Quindi questa pena accessoria potrebbe essere applicata, per esempio, nel caso di condanna per reati di maltrattamenti su minori ex art. 572 c.p.

Secondo l'art. 34 comma 4 c.p., la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori importa anche l'incapacità di esercitare, durante la sospensione, qualsiasi diritto che al genitore spetti sui beni del figlio in base alle norme del titolo IX del libro I del codice civile.

La sospensione della potestà genitoriale consegue, infine, nel caso di condanna per la contravvenzione di impiego di minori all'accattonaggio (ex art. 671 comma 2 c.p.), qualora il fatto sia commesso dal genitore.

 

3.1.4. Altre pene accessorie: l'interdizione perpetua dagli uffici attinenti alla tutela ed alla curatela

Riferimento espresso all'interdizione perpetua dagli uffici attinenti alla tutela ed alla curatela si trova nell'art. 609-novies n. 2 in materia di violenza sessuale. Il contenuto ricalca una parte del disposto dell'art. 28 c.p., che prevede l'interdizione dai pubblici uffici. L'interdizione dagli uffici attinenti alla tutela e alla curatela attiene all'ipotesi di tutela dei minori e degli interdetti, di curatela dei minori emancipati e degli inabilitati, di curatela speciale, come indicato ad esempio negli artt. 357 e s.s., 392 e ss, 424 e 90 c.c.

La durata della pena accessoria è perpetua.

Anche in questo caso, l'inosservanza della pena accessoria può integrare il delitto di cui all'art. 389 c.p., (38) che prevede la reclusione da due a sei mesi.

 

3.2. La mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice

L'art. 388 c.p. dispone che: "chiunque, per sottrarsi all'adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali é in corso l'accertamento dinanzi l'Autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da lire duecentomila a due milioni.

La stessa pena si applica a chi elude l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l'affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

(...) Omissis

Il colpevole è punito a querela della persona offesa."

Autorevole dottrina (39) ritiene che poiché l'art. 388 c.p. è contenuto nel capo relativo ai delitti contro l'autorità delle decisioni giudiziarie, si ritiene che il bene protetto dalla suddetta disposizione sia proprio l'autorità della decisione giudiziaria e non l'efficacia in senso stretto della sentenza. La possibilità di una lettura di tal genere consente di rinvenire nell'ordinamento una misura coercitiva idonea a premere sull'obbligato affinché costui ottemperi spontaneamente all'ordine del giudice.

Il reato previsto dal primo comma è subordinato alla previa ingiunzione di eseguire la sentenza, rivolta dal creditore all'obbligato, oltre che dalla querela della persona offesa: la norma, pertanto, non punisce il semplice inadempimento dell'obbligo riconosciuto da un provvedimento giurisdizionale, bensì, richiedendo il compimento di atti fraudolenti, punisce solo l'inadempimento caratterizzato da una volontà qualificata.

Molto più efficace è invece la funzione coercitiva che riesce ad assolvere il secondo comma dell'art. 388 c.p., il quale si limita a richiedere solo il dolo generico, senza fare alcun riferimento all'elemento della frode. La norma è specifica nell'individuare il suo ambito applicativo relativo all'ipotesi di elusione della esecuzione di un provvedimento del giudice civile che concerna l'affidamento dei minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

Secondo la stessa dottrina, l'importanza di questa disposizione è notevolissima, in quanto consente di comprendervi i provvedimenti cautelari in genere e quelli d'urgenza ex art. 700 c.p.c, con la conseguenza di garantirne l'attuazione mediante un'efficacissima misura coercitiva. Di fatto "essa costituisce l'unica possibilità, de iure condito, per non lasciare sguarniti di tutela effettiva una serie numerosa di diritti per la soddisfazione dei quali il legislatore ha esplicitamente disposto che il giudice debba ordinare l'adempimento di obblighi non suscettibili di attuazione tramite la tecnica surrogatoria dell'esecuzione forzata, come ad esempio gli obblighi del tutto o in parte infungibili, oppure obblighi di non fare (se del caso a carattere continuativo o iterativo) il cui adempimento è indispensabile per garantire il godimento di una res materiale o di situazione di libertà." (40)

Da questa possibile interpretazione della norma si comprende la ratio del legislatore, che ha introdotto quale sanzione alla violazione degli ordini di protezione (introdotti con legge n. 154/2001) proprio la pena stabilita dall'art. 388 comma 1 c.p. Ciò in quanto l'obbligo di cessare la condotta delittuosa e di allontanarsi dalla casa familiare, così come quello di non avvicinarvisi, costituiscono obbligazioni infungibili il cui adempimento è indispensabile per garantire i diritti fondamentali dell'integrità fisica e psichica del soggetto passivo di violenza familiare.

 

4. I rimedi in sede civile

Dopo aver passato in rassegna i rimedi predisposti dalle norme penalistiche, è interessante analizzare le misure e i rimedi che le norme civilistiche predispongono a seguito delle violenze agite da un membro della famiglia sugli altri membri. Sotto il profilo civilistico, se la violenza si riversa contro i figli ed è causa di pregiudizio per i medesimi, il giudice potrà emettere dei provvedimenti limitativi o ablativi della potestà familiare; se invece la violenza si riversa nei confronti del coniuge, il coniuge potrà iniziare le procedure per la separazione o per il divorzio. A questi rimedi si è aggiunta anche la misura degli ordini di protezione introdotta dalla legge n. 154/2001.

4.1. Gli istituti previsti dal codice civile a tutela dei figli minori

Nei casi di violenza intrafamiliare rilevanti sono i provvedimenti limitativi o ablativi della potestà e i provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare (sia da parte del minore che dei genitori). A tal proposito, significativi sono i cambiamenti introdotti dalla legge n. 149 del 2001 riguardo al testo degli artt. 330 e 333 c.c.

 

4.1.1. La potestà sui figli

Il termine potestà (nonostante la derivazione etimologica potestas) non sta a significare l'esercizio di un potere naturale ed indiscusso da parte del genitore sul minore, bensì un diritto-dovere. (41) La natura giuridica della potestà evidenzia un duplice profilo: da un lato il diritto soggettivo dei genitori da esercitarsi erga omnes nei rapporti con i terzi e con lo Stato, con funzione e valenza pubblicistica sottratta alla sfera di autonomia privata nei rapporti interni; dall'altro il dovere di esercitare la potestas anteponendo sempre il bene del minore. (42) La Cassazione, nella sentenza del 23 ottobre 1986 n. 6220, emessa a Sezioni Unite, la definisce "un ufficio di diritto privato da esercitare a tutela di una situazione giuridica sostanziale di cui è titolare direttamente il minore." (43) Per potestà genitoriale si intende, dunque, una serie di poteri e doveri posti dall'ordinamento giuridico (dopo la riforma del '75) congiuntamente e paritariamente in capo ai genitori nei confronti dei figli, per far sì che a quest'ultimi siano garantiti, in primo luogo, il mantenimento, l'educazione e l'istruzione, sempre nel rispetto assoluto delle attitudini e delle scelte individuali dei figli medesimi.

I limiti e i contenuti della potestà genitoriale hanno subito una continua evoluzione. Dall'ormai inconcepibile ius vitae ac necis, fondato sulla bandita concezione proprietaria della prole, si è andata affermando una nozione che riconosce i minori quali soggetti autonomi capaci di autodeterminarsi, titolari di diritti fondamentali che lo Stato deve garantire. E in tal senso una forma di garanzia è data proprio dal controllo previsto dall'ordinamento sull'esercizio dell'attività genitoriale, attraverso l'intervento del giudice minorile.

 

4.1.2. La decadenza della potestà ex art. 330 c.c. e la condotta del genitore pregiudizievole ai figli ex art. 333 c.c.

In tema di rimedi di natura civilistica a tutela dei minori, si segnalano principalmente gli articoli 330 e 333 del codice civile.

L'articolo 330 c.c., che regola la "decadenza dalla potestà sui figli", recita come segue:

"Il giudice può pronunciare la decadenza dalla potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio.

In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l'allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l'allontanamento del genitore e convivente che maltratta o abusa del minore." (44)

L'articolo 333 c.c, in materia di "condotta del genitore pregiudizievole ai figli", recita come segue:

"Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall'articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice secondo le circostanze può adottare provvedimenti convenienti e può anche disporre l'allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. (45)

Tali provvedimenti sono revocabili in ogni momento."

 

4.1.3. Il testo originale degli articoli 330 e 333 c.c.

Gli articoli 330 e 333 c.c. contemplano forme di intervento del Tribunale per i Minorenni nei casi in cui i genitori non esercitino i loro doveri nei confronti dei figli, ovvero abusino dei relativi poteri con pregiudizio per i figli medesimi. È noto che i provvedimenti che il Tribunale per i Minorenni può adottare non hanno natura sanzionatoria, potendo essere assunti pure quando la situazione di disagio per il minore non dipenda da un atteggiamento colpevole dei genitori; a tali provvedimenti va infatti riconosciuta una funzione essenzialmente preventiva. Essi mirano quindi non già a punire i genitori per gli inadempimenti commessi, né tanto meno a risarcire i figli per le conseguenze passate degli atti pregiudizievoli, bensì ad evitare che per l'avvenire si ripetano altri atti dannosi del genere, ovvero si protraggano ulteriormente le conseguenze di precedenti inadempimenti. (46)

In tale prospettiva, l'unico interesse rilevante in causa è quello del minore, senza che possa configurarsi una contrapposizione con gli interessi dei genitori. Pertanto, non assumono un ruolo decisivo il dolo o la colpa del genitore, quanto la sua reale incapacità a crescere adeguatamente i figli senza recare loro oggettivo pregiudizio. Gli inadempimenti dei genitori possono assumere maggiore o minore gravità; concernere tutti i doveri che sugli stessi gravano, ovvero uno solo o alcuni di essi; verificarsi costantemente ovvero saltuariamente; essere connotati da colpa, più o meno grave, ovvero da incolpevole incapacità di assolvere nel modo dovuto il ruolo genitoriale.

Tenuto conto della varietà delle fattispecie, diverse sono le misure che possono essere adottate nell'interesse del minore: dalla decadenza della potestà genitoriale (ex art. 330 c.c.), all'assunzione di provvedimenti atipici (ex art. 333 c.c.) ritenuti più opportuni secondo le circostanze. Data l'atipicità del contenuto, è possibile fare una classificazione per categorie generali. Si distinguono così provvedimenti ad efficacia temporanea, miranti a singole concrete manifestazioni di volontà del genitore nell'esercizio della sua potestà, ovvero a rendere legittimo il comportamento dei figli, oppure di terzi, impedito dai genitori ed autorizzato dal giudice. Altre volte, invece, l'intervento del Tribunale per i Minorenni è caratterizzato da un'efficacia duratura nel tempo, legittimando una situazione che può avere anche durata indeterminata.

Tanto l'art. 330 c.c. quanto l'art. 333 c.c. prevedono che il Tribunale per i Minorenni possa disporre l'allontanamento del minore dalla residenza familiare. Diversa è peraltro la funzione che tale provvedimento assume nelle due disposizioni normative. Infatti nell'art. 330 c.c. l'allontanamento del minore (ammissibile solo se ricorrano gravi motivi) si configura come un accessorio eventuale della misura principale della decadenza della potestà genitoriale; in concreto esso potrà essere disposto quando entrambi i genitori siano dichiarati decaduti dalla potestà, ovvero quando la decadenza riguardi l'unico genitore esercente la potestà medesima e nel nucleo familiare non possa essere garantita la convivenza stabile con altri soggetti, comunque idonei a rivestire un ruolo significativo per il minore (ad esempio i nonni o altri parenti).

L'art. 333 c.c., invece, enuclea espressamente l'allontanamento del minore quale misura che il Tribunale per i Minorenni può adottare in tutti quei casi in cui la condotta di uno o entrambi i genitori, se pur pregiudizievole per il figlio, non sia tale da poter dar luogo alla decadenza dalla potestà. Il provvedimento ha quindi una sua autonomia, ponendosi come una delle forme di intervento possibili per realizzare il supremo interesse del minore ad uno sviluppo sereno ed armonioso della sua personalità. Anzi l'allontanamento del minore si configura come la misura più grave che il Tribunale per i Minorenni potrebbe assumere, risolvendosi per il genitore, di fatto, nella perdita, seppur temporanea, del potere sulla persona del figlio.

Data l'importanza del provvedimento ex art. 330 c.c., il Tribunale per i Minorenni tende ad applicare soventemente i provvedimenti ex art. 333 c.c. Tuttavia l'ostinata inottemperanza del genitore ad un provvedimento limitativo può ugualmente comportare la successiva applicazione dell'art. 330 c.c., talvolta addirittura ipso iure.

 

4.1.4. Le modifiche agli articoli 330 e 333 c.c. introdotte dalla legge 18 marzo 2001 n. 149

La legge 18 marzo 2001 n. 149, benché volta principalmente a modificare la disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori, ha introdotto anche alcune modifiche al titolo VIII del libro I del codice civile.

Risolvendo uno spinoso dibattito, la legge ha chiaramente dato al giudice il potere di emettere un ordine di allontanamento del genitore violento dalla casa familiare. La ratio della modifica apportata dalla legge è quella di evitare la condizione di peregrinazione da parte di tutto il restante nucleo familiare, quando vi sia invece la possibilità, con il semplice allontanamento di colui che ha posto in essere i fatti pregiudizievoli, di mantenere unita la famiglia nel luogo dove essa ha i propri interessi (ad esempio il luogo di lavoro per un coniuge), le proprie relazioni (ad esempio la scuola e gli amici dei minori) e gli affetti indispensabili per mantenere un contatto positivo con la realtà. Si consideri, infine, che questo tipo di provvedimento, oltre ad evitare il disagio per tutti i componenti della famiglia, comporta anche per la pubblica amministrazione un minor onere economico, non dovendo il servizio competente ricorrere ad idonea struttura/comunità di tipo familiare per accogliere il coniuge maltrattato ed i figli minori.

L'esplicita previsione normativa dell'allontanamento del genitore è di grandissimo valore: infatti, più volte si era cercato di sostenere che l'art. 333 c.c. potesse includere, tra i provvedimenti convenienti che il giudice poteva emettere a tutela del minore, non solo l'ordine di allontanamento del minore vittima di abuso, ma anche l'ordine di allontanamento del genitore violento. Nonostante ciò, la giurisprudenza si era sempre mostrata contraria a qualsiasi interpretazione estensiva, escludendo appunto che l'art. 333 c.c. potesse includere forme di allontanamento coattivo del genitore cui fosse addebitabile la situazione di pregiudizio per il figlio.

È interessante, a tal proposito, menzionare il ricorso presentato il 13 aprile 1992 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna, con la relativa decisione del Tribunale per i Minorenni di Bologna del 2 dicembre 1992. (47)

In tale occasione, il Pubblico ministero, di fronte ad un palese caso di abuso del padre sui figli e sulla madre, richiede al Tribunale per i Minorenni di applicare la misura dell'allontanamento del genitore violento dalla residenza familiare, quale "provvedimento conveniente" ex art. 333 c.c., con la seguente motivazione: "una prima lettura del disposto dell'art. 333 c.c. parrebbe consentire unicamente l'ipotesi dell'allontanamento della prole dalla residenza familiare, ma un'interpretazione di questo tipo sarebbe del tutto irrazionale, ma anche, con tutta probabilità, in contrasto con i principi costituzionali: irrazionale perché nell'ipotesi di comportamento pregiudizievole di un solo genitore, costui (che rimane nella casa) verrebbe privilegiato in danno del genitore meritevole e degli stessi minori (che devono lasciare la casa familiare) che si troverebbero costretti a dover modificare il loro regime di vita e il loro centro di interessi (l'alternativa il più delle volte è data da una istituzionalizzazione, sia pure unitamente alla madre, rimanendo privo di ogni effetto un semplice affidamento alla madre che non incida sulla convivenza dei genitori); in contrasto con gli articoli 3 e 30 della Costituzione, in quanto la disparità rispetto al regime previsto per l'ipotesi di separazione e di divorzio, risulta di tutta evidenza e completamente immotivata.

In realtà pare a questo Pubblico Ministero che detta interpretazione non sia imposta dall'art. 333 c.c., che esplicitamente consente al Tribunale per i Minorenni di adottare provvedimenti convenienti - tra i quali indubbiamente v'è l'allontanamento del genitore che tenga comportamento pregiudizievole - e giunge sino all'estremo di allontanare il minore da entrambi i genitori, per affidarli a terzi; in buona sostanza la norma contempla l'ipotesi estrema cui possono giungere "i provvedimenti convenienti" costituita appunto dall'allontanamento da entrambi i genitori, ma certamente non esclude l'ipotesi meno grave sotto il profilo dell'esercizio della potestà, nella cui ottica si muove la norma - in cui il provvedimento conveniente sia l'allontanamento del genitore che tenga comportamento pregiudizievole.

Del resto detto allontanamento nell'interesse della prole costituisce ormai un principio generale del nostro ordinamento, essendo stato ampliato addirittura ai figli maggiorenni dalla recente legge che ha modificato le norme in materia di divorzio (legge 6 marzo 1987, n. 74), e ben può essere utilizzato in una interpretazione "logica" prima ancora che "estensiva" dell'art. 333 c.c.

Da ultimo va notato che ove il Tribunale andasse di contrario avviso (...) dovrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 333 c.c., nella parte in cui non consente l'allontanamento dalla residenza familiare del genitore che tenga comportamento pregiudizievole."

Nonostante il ben motivato ricorso, il Tribunale per i Minorenni lo rigetta, con la seguente motivazione: "la richiesta di allontanamento del padre, sebbene necessaria allo stato dei fatti, è però improponibile. Questo perché la libertà di dimora è tra quelle fondamentali nella Costituzione (art. 16 Costituzione), comprimibile dal giudice ma nell'ambito del processo penale e per il tempo strettamente previsto in materia di misure cautelari personali (art. 238 c.p.p.).

La disparità che, secondo il P.M., si realizzerebbe nelle ipotesi di separazione e scioglimento del matrimonio, non sussiste. Il giudice in realtà neppure in quei casi ha un potere specifico di allontanamento del genitore: ha un potere di assegnazione della casa coniugale, che può risolversi in allontanamento del coniuge non assegnatario, ma a seguito di esecuzione forzosa promossa dall'altro coniuge. Il giudice non può certo sostituirsi al coniuge nell'interruzione della convivenza coniugale; non può disporre una sorta di "separazione forzosa". D'altra parte il provvedimento di assegnazione della casa coniugale non si connette esclusivamente alla minore età dei figli affidati ad uno dei coniugi. Vengono in considerazione anche altre esigenze quali la tutela del coniuge più debole e anche l'assetto patrimoniale tra coniugi. Perciò l'eccezione di incostituzionalità è infondata.

In una fattispecie in cui i coniugi non agiscono per la separazione personale, il giudice della potestà genitoriale (che non può applicare le norme sull'assegnazione della casa coniugale, mancandone i presupposti giuridici) può solo ritenere il grave pregiudizio inflitto al minore dal protrarsi della sua convivenza con i genitori e disporne l'allontanamento affidandolo ai servizi sociali per il più idoneo collocamento, attribuendo però al genitore che paia sufficientemente adeguato la facoltà di continuare la convivenza con i figli minori nel nuovo ambiente. (...)."

Si riporta in proposito il commento della dottrina al decreto: (48) "Il giudice minorile è legittimato ad adottare, qualora ne ricorrano gli estremi, tutti i provvedimenti più opportuni nell'interesse del minore, così limitando e comprimendo (fino ad escluderne l'esercizio) la potestà genitoriale. Quel giudice, peraltro, non ha il titolo per incidere su posizioni di diritto soggettivo del genitore, che allo stesso tempo gli competono, non già in quanto tale, bensì come cittadino. L'art. 16 della Carta Costituzionale riconosce e garantisce ad ognuno, quale espressione di fondamentali principi di libertà, il diritto di soggiorno e di dimora in qualsiasi parte del territorio nazionale. Tale diritto può essere limitato solo per motivi e finalità che trascendono la situazione personale dell'interessato, in funzione della tutela di interessi collettivi, nei soli casi e con le modalità previste dall'ordinamento giuridico, in base alla riserva di legge. Pertanto in mancanza di una esplicita disposizione che legittimi espressamente il Tribunale minorile a disporre l'allontanamento del genitore dalla casa familiare, deve escludersi l'adottabilità di un provvedimento di tale contenuto."

Come si può vedere, nonostante la necessità di dare un'interpretazione estensiva al contenuto dei provvedimenti ex art. 333 c.c., dottrina e giurisprudenza erano concordi nel non ritenere possibile l'allontanamento del genitore dalla casa familiare. L'intervento del legislatore in proposito, tramite le modifiche introdotte con la legge 149/2001, è stato tanto utile quanto chiarificatore.

 

4.1.5. Aspetti procedurali

L'art. 336 c.c., rubricato "procedimento", dispone come segue: "i provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell'altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato.

Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro un genitore, questi deve essere sentito.

In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d'ufficio, provvedimenti temporanei nell'interesse del figlio.

Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge."

Da uno punto di vista strettamente procedurale, i provvedimenti ablativi della potestà genitoriale sono adottati dal giudice minorile con procedimento camerale, sommario ed a contraddittorio rudimentale e, pur reclamabili in appello, non sono ricorribili in Cassazione, come invece previsto per quei procedimenti cui la legge faccia espresso riferimento, nel rispetto dell'art. 739 c.p.c. Si tratta, dunque, di atti di volontaria giurisdizione, a carattere provvisorio, revocabili e modificabili in qualsiasi momento dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento (art. 742 c.p.c). La Cassazione, in una recente sentenza, (16 marzo 1999, n. 2337), ha inoltre, precisato che: "I provvedimenti della corte di appello di cui agli art. 330, 332, 333 c.c. sono adottati a conclusione di un procedimento di tipo non contenzioso, (e privo, pertanto, di un vero e proprio contraddittorio), non hanno il carattere della decisorietà e della definitività (essendo revocabili e modificabili per motivi tanto sopravvenuti quanto preesistenti), non risolvono conflitti tra diritti contrapposti (costituendo una forma di governo di interessi sottratti all'autonomia privata), e non sono, pertanto, passibili di impugnazione con il rimedio straordinario del ricorso ex art. 111 Costituzione."

La procedura ha inizio presso il Tribunale dei Minorenni su iniziativa di parte, del Pubblico ministero o d'ufficio. È da segnalare che in questo tipo di procedimento può mancare il contraddittorio e il giudice ha massima discrezionalità; l'obbligo di sentire il genitore nel caso in cui una decisione sia presa contro lo stesso (art. 336 c.c.) non si mostra mezzo sufficiente a garantire i diritti delle parti, e soprattutto il diritto di difesa. (49)

La competenza appartiene al Tribunale per i Minorenni in via funzionale, esclusiva ed inderogabile. La Cassazione ha più volte ribadito la competenza del giudice minorile in materia di provvedimenti sulla potestà, anche quando sia pendente un giudizio di separazione: l'eventuale adozione di provvedimenti richiesti non determina un conflitto di competenza con il Tribunale ordinario, posto che questi potrà tener conto della decisione del giudice specializzato quale fatto sopravvenuto, ove essa risulti rilevante. (50)

 

5. Gli istituti previsti dal codice civile a tutela dei coniugi

È utile esaminare, a questo punto, i rimedi previsti dal codice civile nei casi in cui la situazione di violenza in famiglia a scapito di un coniuge sia tale da rendere necessario un intervento del giudice al fine di sospendere in via temporanea tale situazione, oppure di interrompere definitivamente il rapporto, tramite un giudizio di separazione o di divorzio.

5.1. La separazione giudiziale

Il matrimonio si scioglie solo a seguito della morte di uno dei coniugi e negli altri casi previsti dalla legge (art. 149 c.c.); tuttavia l'art. 150 c.c. prevede la possibilità per i coniugi di sospendere taluni doveri scaturenti dal matrimonio tramite la separazione consensuale o giudiziale. La separazione personale è dunque la situazione di legale sospensione dei doveri reciproci dei coniugi, salvi quelli di assistenza e di reciproco rispetto, e salvi gli obblighi nei confronti dei figli. (51)

Si tratta di un istituto che generalmente precede il divorzio, costituendone una causa tra le più frequenti. Può anche avere valenza autonoma, sia a carattere temporaneo, in quanto i coniugi ritengono che il rapporto non sia irrimediabilmente compromesso, sia a carattere definitivo, in quanto non si voglia poi addivenire al divorzio ma si preferisca continuare ad applicare al rapporto la disciplina della separazione. In entrambi i casi, la separazione esonera i coniugi dall'osservanza degli obblighi di convivenza, fedeltà e collaborazione.

La separazione può essere: giudiziale, qualora ne sia fatta domanda al giudice e venga pronunciata con sentenza a seguito di giudizio; consensuale, qualora sia il frutto di un accordo tra i coniugi, omologato poi dal giudice; ovvero di fatto, quando in nessun modo viene formalizzata, avendo in tal caso effetti estremamente limitati.

I presupposti per la separazione giudiziale sono indicati nell'art. 151 c.c., così come novellato dalla riforma del diritto di famiglia del 1975: "la separazione può essere richiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole." La separazione non ha, dunque, una funzione di sanzione nel caso di gravi comportamenti lesivi dei doveri del coniuge, ma costituisce il rimedio obiettivo (52) per l'intollerabilità della convivenza, a prescindere dalla valutazione di ricuperabilità o meno di quest'ultima. Il comportamento colpevole di uno dei coniugi rileva, invece, solo ai fini della eventuale addebitabilità della separazione. È per questo che nei casi di violenza nei confronti di un coniuge, se il coniuge vittima si trova in una situazione psicologica o economica sufficientemente forte, la strada normalmente intrapresa è proprio quella della separazione.

La vigente disciplina non indica specifici fatti dai quali deve risultare l'intollerabilità della convivenza. Occorre quindi accertare la sussistenza di circostanze che nel caso concreto depongano obbiettivamente per l'intollerabilità della convivenza, tenendo conto dell'importanza che le stesse assumono in relazione alle particolari condizioni dei coniugi (si pensi soprattutto alla loro educazione ed all'ambiente in cui vivono). Non può, infatti, ritenersi sufficiente né una valutazione solo oggettiva, che si riferisca a parametri di tolleranza media, né una valutazione solo soggettiva, in base alla quale sarebbero intollerabili tutti i fatti percepiti come tali.

Attualmente la disciplina procedurale della separazione giudiziale, fondata sul giudizio di intollerabilità della convivenza, (53) è contenuta, prim'ancora che negli artt. da 706 a 709 c.p.c., nell'art. 4 della legge 898/1970 (così come modificato dall'art. 8 della legge 74/1987), mentre il contenuto della sentenza di separazione è disciplinato dagli artt. 155, 156 e 156-bis c.c.

La domanda deve essere proposta, con ricorso, personalmente dal coniuge.

In particolare, l'art. 708 c.p.c. dispone che "il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, procurando di conciliarli.

Se i coniugi si conciliano, il presidente fa redigere processo verbale di conciliazione.

Se il coniuge convenuto non comparisce o la conciliazione non riesce, il presidente, anche d'ufficio, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti davanti a questo.

Se si verificano mutamenti nelle circostanze l'ordinanza del giudice può essere modificata dal giudice istruttore a norma dell'art. 177."

Il contenuto dei provvedimenti temporanei ed urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole è lasciato indeterminato dall'art. 708, comma 3. Il loro scopo è evidente: alla presenza di una famiglia in crisi è necessario ed urgente dettare una disciplina che si sostituisca a quella legale, contenuta negli artt. da 143 a 148 c.c e negli artt. 159 ss. c.c, idonea a disciplinare la situazione di crisi fino a che non intervenga una sentenza di separazione che disponga ai sensi degli artt. 155, 156 e 156 bis c.c.

Contenuto di tali provvedimenti è: l'autorizzazione a vivere separati (in tal senso si applicano gli artt. 232 e 234 c.c.), la determinazione del mantenimento o degli alimenti, l'affidamento e il mantenimento dei figli, l'assegnazione della casa familiare.

Quanto alla natura dei provvedimenti, rilevando che si tratta di provvedimenti sommari a contenuto anticipatorio, determinante si rivela l'art. 189 disp. att. c.p.c.: ai sensi di tale disposizione, non solo l'ordinanza presidenziale costituisce titolo esecutivo, ma soprattutto conserva la sua efficacia anche dopo l'estinzione del processo - il che esclude la natura cautelare dei provvedimenti in esame - finché non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di una nuova presentazione del ricorso per separazione personale dei coniugi. (54)

La sentenza, pronunciata a seguito di un normale processo contenzioso, contiene, nel caso in cui si accolga la domanda, la pronuncia di separazione, nonché i provvedimenti relativi ai coniugi ed ai figli ed eventualmente l'addebito. La sentenza è soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione.

Come detto supra, la separazione giudiziale non estingue il vincolo coniugale, ma, a seguito della sua sospensione, produce effetti di ordine personale e patrimoniale. (55)

Per quanto qui interessa, il provvedimento che indirettamente assicura al coniuge vittima di violenza la temporanea interruzione di quest'ultima è quello relativo all'assegnazione della casa familiare, anche se va notato che il fine di tale provvedimento non è quello cautelare di tutelare una "vittima di violenza", bensì quello di regolare i rapporti abitativi laddove il giudice abbia disposto che i coniugi sono autorizzati a vivere separati, come meglio illustrato infra al paragrafo 5.3.

Vi è però da notare che l'allontanamento del coniuge a seguito di assegnazione della casa familiare non costituisce un rimedio specifico azionabile autonomamente, ma bensì risulta uno degli effetti del giudizio di separazione: pertanto, prima dell'introduzione della nuova legge 154/2001, il coniuge vittima di violenza era obbligato a depositare il ricorso per separazione, in quanto non esisteva una soluzione intermedia per ottenere l'allontanamento del coniuge violento senza passare necessariamente attraverso la separazione. Lo stesso vale per l'assegno di mantenimento ex art. 148 c.c. (vedi infra 5.4.), dato che il diritto nasce solo a seguito di sentenza di separazione: in passato, se il coniuge vittima si allontanava, oppure (fortunato caso) si allontanava il coniuge violento, il primo non aveva comunque alcuna possibilità di ottenere un assegno, a meno che non decidesse di procedere alla separazione, che implica la rottura dei rapporti familiari. Attualmente, tramite l'applicazione degli ordini di protezione, questi due effetti patrimoniali della separazione sono invece azionabili in modo autonomo, con il chiaro vantaggio di ottenere una misura temporanea che da un punto di vista legale non incide sul vincolo coniugale, lasciandolo integro. Qualora, invece, il coniuge decida che la convivenza non solo è intollerabile ma non è neanche più recuperabile e proseguibile, egli sceglierà per la soluzione quasi definitiva (in quanto è pur sempre ammessa la riconciliazione) della separazione, potendo beneficiare di un più largo spettro di effetti, sia sul piano personale che patrimoniale.

 

5.1.1. L'addebitabilità della separazione

Mentre la separazione può essere chiesta in base alla obiettiva intollerabilità della convivenza, e quindi a prescindere da un giudizio di colpa del coniuge, il giudizio di colpa del coniuge è invece importante ai fini della dichiarazione di addebitabilità. Quest'ultima consiste nell'accertare in via giudiziale che la separazione è imputabile ad uno dei coniugi per la violazione dei doveri inerenti al matrimonio.

La conseguenza principale a carico del coniuge in colpa è l'obbligo di mantenere l'altro coniuge. Quest'ultimo conserva inoltre le aspettative successorie nei confronti del coniuge in colpa.

È importante ricordare l'eventualità di una domanda di risarcimento danni nei casi di addebitabilità della separazione, in quanto il coniuge vittima abbia avuto a soffrire delle lesioni ingiustamente causategli dal coniuge violento. "In proposito va rilevato che, se è pur vero che l'addebito non rientra, per sé considerato, tra i criteri d'imputazione della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., comportando semplicemente il diritto al coniuge incolpevole al mantenimento, nel concorso delle altre circostanze previste dalla legge (Cassazione n. 4108/1993, Cassazione n. 3367/1993), può peraltro configurarsi la risarcibilità di ulteriori danni nel caso in cui i fatti che hanno dato luogo alla dichiarazione di addebito integrino gli estremi dell'illecito extracontrattuale di cui alla norma citata (Cassazione, n. 58866 del 26 maggio 1995)." (56)

Dunque la violazione degli obblighi di assistenza materiale e morale (concetto che richiama i valori di aiuto, sostegno e protezione reciproca), di collaborazione (inteso come cooperazione e soddisfazione dei bisogni comuni, al fine di favorire lo sviluppo e l'arricchimento della personalità di ciascun coniuge), e di fedeltà (inteso come impegno reciproco di lealtà, di non tradire la fiducia reciproca, e di non venir meno al rapporto di dedizione fisica e spirituale), insieme alle molestie morali, specie se attuata in modo ingiurioso, sprezzante, denigratorio, ostile, etc., possono senz'altro assumere rilievo in vista di un possibile risarcimento del danno esistenziale (in base al combinato disposto dell'art. 2043 c.c. e dell'art. 2 Costituzione) (57) o del danno alla serenità familiare (in base al combinato disposto dell'art. 2043 c.c. e dell'art. 29 Costituzione). (58)

 

5.2. Le cause penali del divorzio

Nei casi di violenza in famiglia, il divorzio non è il rimedio primario per interrompere tempestivamente una situazione di grave pregiudizio. La causa che giustifica la pronunzia di scioglimento del matrimonio è l'impossibilità della comunione spirituale e materiale dei coniugi. (59) Tale impossibilità deve tuttavia risultare dalla sussistenza di uno dei presupposti legali: secondo la legge italiana, è necessario addurre una causa giustificativa, fra quelle tassativamente indicate all'art. 3 della legge n. 898/1970, o quanto meno richiedere l'accertamento del giudice. La legge distingue le cause del divorzio in due gruppi: il primo comprende i casi di condanna penale, mentre il secondo include gli altri fatti preclusivi della comunione spirituale e materiale. Nei casi di violenza in famiglia possono rilevare le cause del primo gruppo.

Le cause penali del divorzio, che giustificano la sentenza del giudice, richiedono la sussistenza di una sentenza di condanna passata in giudicato, intervenuta dopo il matrimonio, anche per fatti antecedenti allo stesso, in particolare:

- all'ergastolo o ad una pena superiore ai quindici anni, per uno o più delitti non colposi, con esclusione dei reati politici e di quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale;

- a qualsiasi pena detentiva per i reati d'incesto, violenza sessuale, o per induzione, costrizione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione;

- a qualsiasi pena detentiva per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio;

- a qualsiasi pena detentiva per lesioni personali gravissime, per violazione degli obblighi di assistenza familiare, per maltrattamenti in famiglia o per circonvenzione di incapaci in danno del coniuge o del figlio.

Come si evince dall'elenco sopra riportato, i comportamenti violenti che integrano reati nei confronti del coniuge o dei figli possono essere, giustamente, una causa di divorzio. L'unico problema è che la domanda di parte può avvenire solo a seguito di sentenza di condanna del coniuge passata in giudicato: il che significa che, pur essendo il divorzio uno strumento utile a interrompere il rapporto violento, in base agli effetti personali e patrimoniali che la sentenza produce, esso non è certo un rimedio tempestivo. Inoltre, l'assegnazione della casa, pur comportando l'effetto indiretto di allontanamento del coniuge violento, non è sufficiente ad impedirgli il successivo avvicinamento alla casa o al luogo di lavoro: difatti, esso non è un rimedio di contenimento alla violenza, bensì uno degli effetti della sentenza di divorzio che consegue anche per i casi in cui il divorzio abbia fondamento in una causa non penale.

Appare chiaro quindi che né la separazione né il divorzio sono, di per sé, rimedi azionabili in modo specifico contro la violenza in famiglia, mentre le misure introdotte dalla nuova legge 154/2001 lo sono. Si può solo constatare che gli effetti della sentenza di separazione o divorzio possono, in modo indiretto, allentare la situazione di violenza.

 

5.3. L'assegnazione della casa familiare nei procedimenti di separazione o divorzio

Secondo la disciplina della separazione e del divorzio, al Tribunale è attribuito il potere-dovere di assegnare la casa coniugale. La logica di questa norma è volta a dirimere la conflittualità tra i coniugi, che solo eventualmente coinvolge, in seconda battuta, anche i figli. È proprio l'esistenza di un conflitto tra coniugi ad imporre che gli stessi debbano vivere separati, e che pertanto sia stabilito quale dei due possa continuare ad abitare nella casa coniugale.

L'art. 708 c.p.c. in tema di separazione e l'art. 6, comma 6, della legge 898/70 non impongono al giudice l'assegnazione della casa coniugale al coniuge che non vanti diritti propri sull'immobile, anche se affidatario della prole o convivente con figli non ancora autosufficienti (ovvero, seguendo l'interpretazione estensiva della norma, sia qualificabile come coniuge economicamente più debole). Dunque la legge non impone l'assegnazione della casa familiare al coniuge sia pure affidatario o convivente con la prole, bensì si limita ad enunciare un criterio preferenziale della tutela del coniuge più debole. (60) In particolare si nota che il provvedimento emesso dal presidente del tribunale, in sede di separazione personale dei coniugi, di assegnazione della casa coniugale ad uno di essi - ancorché di proprietà esclusiva dell'altro - conferisce al coniuge assegnatario un diritto personale di abitazione con tutte le facoltà ad esso inerenti. (61)

La ratio dell'istituto è quella di tutelare la comunità domestica, ed è giustificata esclusivamente dall'interesse della prole, onde preservarla dagli effetti dannosi che derivano dalla crisi del matrimonio.

La casa familiare è un concetto assai più pregnante dell'abitazione civile. Infatti, la prima è ricca di elementi che determinano e caratterizzano l'habitat domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita della famiglia. È un complesso di beni (pertinenze, mobilia, oggetti personali di uso quotidiano) legati tra loro da una connessione che qualifica tale universitas come un bene avente identità funzionale di scopo. (62) Questo latente vincolo di destinazione, che non può non riconoscersi alla casa familiare, rende quest'ultima un bene unico e non sostituibile, (anche da un'eventuale seconda casa.

Date queste premesse, si nota come il provvedimento di assegnazione della casa niente ha in comune con quello di allontanamento dalla casa familiare ex artt. 330 e 333 c.c. o ex artt. 342-bis e 342-ter c.c. L'allontanamento del coniuge non assegnatario non è perciò funzionale all'interesse dei figli minori (che potrebbero anche non esserci), bensì si pone semplicemente come conseguenza di un provvedimento del giudice in una situazione in cui non è più possibile la prosecuzione della convivenza. Proprio ove si consideri che i coniugi separati o divorziati possono non avere figli, ne consegue che l'assegnazione della casa coniugale e quella dei provvedimenti urgenti ex art. 333 c.c. non hanno alcun comune denominatore.

Infine, va sottolineato che, comunque, anche nei procedimenti di separazione e divorzio, il giudice non ha alcun potere di allontanamento specifico del genitore, ma solo quello di assegnazione della casa coniugale. Se il coniuge non affidatario si rende inottemperante al provvedimento del giudice, non consegue una violazione in re ipsa dell'ordine del giudice, e dunque non è passibile di alcuna sanzione. Il coniuge affidatario dovrà fare ricorso al giudice, chiedendo l'esecuzione forzosa.

Infatti l'ordinanza che attribuisce ad uno dei coniugi il diritto di abitare la casa familiare deve ritenersi soggetta, in mancanza di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva in via breve, a mezzo del competente ufficiale giudiziario, ovvero alla normale procedura di esecuzione forzata. (63) Di conseguenza, nella prima ipotesi il giudice competente è quello che ha emesso il provvedimento (ovvero quello competente per il merito, se risulti iniziato il relativo giudizio), mentre, nella seconda, la competenza si radica in capo al giudice dell'esecuzione, secondo le regole ordinarie. (64)

Proprio la differente funzione degli artt. 330 e 333 c.c. e della disciplina sulla separazione e sul divorzio ha reso necessario l'intervento del legislatore, tramite la legge n. 149 del 2001, che detta esplicitamente per il giudice minorile il potere di allontanare il genitore violento nei casi previsti dagli artt. 330 e 333 c.c.

A questo strumento si aggiungono i provvedimenti introdotti dalla legge 154 del 2001 in materia di ordini di protezione, che sembrano trovare applicazione in aggiunta o nei casi in cui non si applicano i novellati art. 330 e 333 c.c., come più diffusamente trattato infra al paragrafo 6.

 

5.4. L'assegno di mantenimento, l'assegno alimentare e l'assegno post matrimoniale

Prima dell'introduzione delle legge 154/2001, in mancanza di una sentenza di separazione, in caso di allontanamento dalla casa familiare da parte del coniuge vittima o del coniuge violento, per il primo non era prevista alcuna protezione economica.

Come supra detto, il diritto all'assegno di mantenimento ha la sua fonte nella legge, e precisamente nel diritto all'assistenza materiale inerente al vincolo coniugale. La sentenza non crea il diritto, ma ne accerta l'esistenza e ne determina il contenuto: serve dunque a rendere il diritto liquido ed esigibile. (65)

Il provvedimento giudiziale che determina il contenuto dell'assegno e ne dispone la corresponsione è una sentenza di condanna, che costituisce titolo esecutivo per l'esercizio del diritto ex art. 474 c.p.c. Anteriormente alla definizione del giudizio, la corresponsione dell'assegno può essere disposta provvisoriamente dal presidente del tribunale, o anche dal giudice istruttore, contestualmente all'adozione dei provvedimenti urgenti nell'interesse dei coniugi e dei figli (ex 708 comma 3 c.p.c.).

Se non vi è addebito a suo carico, il coniuge che non ha reddito sufficiente ha diritto ad una prestazione pecuniaria periodica che gli consenta di conservare il livello di vita che aveva in pendenza di matrimonio. Il presupposto del diritto di mantenimento è l'inferiorità della posizione economica del coniuge bisognoso rispetto all'altro coniuge.

Invece, il coniuge a cui sia stata addebitata la separazione ha solamente diritto agli alimenti legali: in tal caso non rileva lo stato di bisogno quale idoneità a mantenere il livello di vita coniugale, bensì l'incapacità della persona a provvedere alle fondamentali esigenze di vita, che è presupposto degli alimenti legali.

La ratio dell'assegno di divorzio risiede in un dovere di solidarietà post coniugale, che può comunque venir meno se cessa la disparità economica tra i coniugi. Ai fini della fissazione dell'assegno, è richiesto che il richiedente non possa procurarsi i mezzi adeguati. Inoltre la durata del matrimonio incide sulla quantificazione dell'assegno, nel senso che, a parità di altre circostanze, quanto meno è durato il matrimonio, tanto minore sarà la somma dovuta a titolo di alimenti. La natura dell'assegno è prettamente assistenziale e non risarcitoria, in quanto è svincolata dal comportamento del coniuge: infatti, essa viene meno solo se mutano le condizioni economiche del richiedente.

 

5.5. L'art. 700 c.p.c. e i provvedimenti d'urgenza

L'art. 700 c.p.c., rubricato "condizioni per la concessione", così dispone: "fuori dai casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito."

Si tratta di un procedimento sommario cautelare. In presenza di condizioni quali la probabile sussistenza del diritto azionabile in via ordinaria (fumus boni iuris) e di un periculum in mora imminente ed irreparabile causato dalla permanenza di un diritto in uno stato di insoddisfazione per tutto il tempo necessario per ottenere una sentenza a cognizione piena, il titolare del diritto può ottenere un provvedimento idoneo, nel contenuto, ad anticipare, provvisoriamente, gli effetti della futura decisione sul merito. Il provvedimento, caratterizzato da una cognizione sommaria perché superficiale, è provvisorio e strumentale rispetto al provvedimento a cognizione piena. (66)

L'importanza dell'art. 700 c.p.c. consiste nel fatto che i provvedimenti d'urgenza emessi sono caratterizzati da una duplice atipicità: atipico è sia il periculum in mora, sia il contenuto del provvedimento. Ne segue che, in assenza di misure cautelari tipiche, tali provvedimenti possono essere richiesti a tutela di qualsiasi diritto per neutralizzare qualsiasi periculum in mora, purché esso assurga agli estremi del pregiudizio imminente ed irreparabile. Quanto al contenuto del provvedimento, questo deve essere individuato dal giudice, secondo le circostanze, sulla base del solo criterio dell'idoneità ad assicurare provvisoriamente gli effetti della futura decisione sul merito. (67)

L'art. 700 c.p.c., a seguito della rivalutazione dei profili personalistici (ex art. 2 Cost.) e della funzione non patrimoniale di molti diritti, è utilizzato per munire di tutela giurisdizionale urgente i diritti assoluti di nuova emersione, quali i diritti della personalità (diritto al nome, alla riservatezza, all'identità personale, all'immagine, all'onore, ect.) e i diritti di libertà (68) (diritto dei genitori ad educare i figli, diritto alla salute, alla libera manifestazione del pensiero, alla soddisfazione dei bisogni primari e di autonomia privata etc.), che possono ben essere compressi o limitati anche nell'ambito della famiglia. Infatti, la tutela offerta dal processo ordinario ai diritti di libertà è per definizione inadeguata, in quanto normalmente interviene solo dopo che la violazione è già stata effettuata e continuata nel tempo. Pertanto per i diritti di libertà la via ordinaria di tutela giurisdizionale è, o dovrebbe essere, la tutela sommaria urgente, ovvero una tecnica che prevenga la violazione minacciata o intervenga nell'immediatezza della violazione, in modo da impedirne la continuazione. (69)

Di fronte al quesito se, antecedentemente all'introduzione della nuova misura cautelare degli ordini di protezione, il familiare che fosse stato soggetto ad un grave pregiudizio nella sua integrità fisica o morale, ovvero nella sua libertà, da parte dell'altro coniuge o convivente, potesse ricorrere alla tutela urgente disposta dall'art. 700 c.p.c., per ottenere la cessazione del comportamento ed eventualmente la misura dell'allontanamento dalla casa familiare, si deve senz'altro dare risposta positiva, per i motivi sopraesposti. Tuttavia, a differenza della misura ex art. 342-bis c.c., quella ex art. 700 c.p.c. costringe il beneficiario ad iniziare un procedimento a cognizione piena, volto alla determinazione del diritto leso e alla conferma della misura emessa.

È importante notare, inoltre, che, sebbene l'art. 700 c.p.c. sia una tipica norma di chiusura, dettata con la finalità di dare sbocco ad esigenze di tutela urgente ad una serie di diritti per i quali non erano state previsti specifici procedimenti sommari tipici (cautelari o non cautelari), tuttavia essa non può essere applicata laddove esistono già delle misure cautelari alternative. A tal proposito, si possono citare alcune misure cautelari tipiche, disciplinate al di fuori del IV libro del c.p.c. e contenute nel codice civile, quali ad esempio i provvedimenti per ottenere l'assegno provvisorio di alimenti ex art. 446 c.c. (70)

Parimenti, non è possibile utilizzare l'art. 700 c.p.c. per ottenere gli effetti anticipatori dei provvedimenti nascenti dal procedimento previsto dall'art. 708 c.p.c., in quanto quest'ultimo prevede già una fase sommaria, urgente e tipica, entro il processo ordinario di separazione, a cognizione piena, anche se non cautelare. (71) Tuttavia la giurisprudenza di Cassazione ritiene che "nella controversia fra coniugi separati, in ordine agli obblighi di mantenimento della prole, deve ritenersi consentito al giudice istruttore, in applicazione dei principi generali posti dagli artt. 700 e seguenti cod. proc. civ. di fissare in via provvisoria ed urgente detto mantenimento, salva restando la revocabilità del relativo provvedimento, destinato comunque ad esaurirsi con la decisione di merito." (72)

Sembra dunque che si possano individuare due punti fermi. Antecedentemente alla introduzione della nuova misura cautelare, la misura ex 700 c.p.c., data l'atipicità del suo contenuto, poteva anche consistere nell'allontanamento dalla casa familiare nei casi di tutela urgente dei diritti personali del coniuge o del convivente; tuttavia, a seguito dell'introduzione della misura specifica ex artt. 342 bis e 342-ter c.c., può ragionevolmente ritenersi che, per ottenere l'allontanamento dalla casa familiare, attualmente debba prevalere la misura specifica prevista dalla legge 154/2001 rispetto alla misura nascente ex art. 700 c.p.c., da considerarsi norma residuale. Il legislatore ha infatti preferito tipizzare il diritto tutelato ed il contenuto della misura ad esso adeguata, onde assicurarle maggiore effettività, evitando al contempo di dover iniziare un processo a cognizione piena. Inoltre, salvo casi eccezionali di urgenza e di pregiudizio irreparabile, l'art. 700 c.p.c. non dovrebbe essere utilizzato quale misura anticipatoria degli effetti dei provvedimenti ottenibili ex art. 708 c.p.c in tema di separazione giudiziale dei coniugi. (73)

 

6. Le novità introdotte dalla legge n. 154 del 5 aprile 2001

Agli strumenti utilizzabili in sede civile si è aggiunta, a partire dall'aprile 2001, una nuova misura che, almeno nelle premesse e nelle intenzioni del legislatore, (74) si pone come un valido strumento per interrompere temporaneamente la violenza e per dare un chiaro segnale che certe manifestazioni sono illecite e possono essere tempestivamente fermate tramite l'intervento dell'autorità giudiziaria.

6.1. Generalità. Scopi della legge

La legge n. 154 del 5 aprile 2001, concernente le "misure contro la violenza nelle relazioni familiari", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 98 del 28 aprile 2001, ha introdotto alcuni interessanti rimedi volti ad arginare tempestivamente i fenomeni di violenza domestica.

Con tale legge si porta a compimento un iter legislativo iniziato nel 1997 (nella XIII legislatura) da Franca Prisco D'Alessandro ed altri, con il disegno di legge n. 72 "Norme per l'adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari", presentato dal Presidente del Consiglio Prodi e dal Ministro per le pari opportunità Finocchiaro Fidelbo il 18 luglio 1997.

L'esigenza normativa di arginare la violenza domestica nasce da un dibattito più che decennale, suscitato dall'esperienza dei centri anti-violenza e delle case di accoglienza per le donne maltrattate. (75) L'esperienza e la pratica dei centri ha messo in evidenza l'insufficienza degli strumenti di tutela giudiziaria per le violenze all'interno della famiglia, per i rapporti coniugali, per le convivenze di fatto e per i conflitti familiari tra soggetti diversi dai coniugi. La nuova disciplina interviene sia nell'ambito penale che in quello civile.

Si analizza adesso il testo degli articoli che compongono la legge n. 154 del 5 aprile 2001, distinguendo tra ambito di applicazione penale e civile.

 

6.2. Analisi della nuova misura cautelare coercitiva inserita nell'art. 282 bis del c.p.p.

Art.1 "Misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare"

1. Dopo il comma 2 dell'art. 291 del codice di procedura penale è aggiunto il seguente:

"2-bis. In caso di necessità o urgenza il pubblico ministero può chiedere al giudice, nell'interesse della persona offesa, le misure patrimoniali provvisorie di cui all'articolo 282 bis. Il provvedimento perde efficacia quando la misura cautelare sia revocata."

2. Dopo l'articolo 282 del codice di procedura penale è inserito il seguente:

"art. 282-bis (Allontanamento dalla casa familiare) - 1. Con il provvedimento che dispone l'allontanamento il giudice prescrive all'imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l'autorizzazione del giudice che procede. L'eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita.

2. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell'incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.

3. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell'assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi dell'obbligato e stabilisce le modalità e i termini del versamento. Può ordinare, se necessario, che l'assegno sia versato direttamente al beneficiario da parte del datore di lavoro dell'obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L'ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.

4. I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al comma 1, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde efficacia il provvedimento di cui al comma 1. Il provvedimento di cui al comma 3, se a favore di coniugi o figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga l'ordinanza dell'articolo 708 del codice di procedura civile ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti economico-patrimoniali dei coniugi ovvero al mantenimento dei figli.

5. Il provvedimento di cui al comma 3 può essere modificato se mutano le condizioni dell'obbligato o del beneficiario, e viene revocato se la convivenza riprende.

6. Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'art. 280."

Come si può desumere dal testo della legge, in ambito penale non sono stati introdotti nuovi reati, bensì è stata introdotta nel codice di procedura penale, in una prospettiva di repressione degli abusi familiari, una specifica misura cautelare di tipo coercitivo denominata "allontanamento dalla casa familiare".

Collocata nell'art. 282-bis comma 1 del codice di procedura penale, la misura coercitiva principale consiste: nella prescrizione rivolta all'indiziato di lasciare immediatamente la casa familiare ovvero di non farvi rientro, nel caso in cui l'indagato si trovi in luogo (anche di detenzione) diverso dal domicilio domestico; nella prescrizione di non accedervi senza l'autorizzazione del giudice che procede (che, se concessa, può prevedere modalità di visita). Il rientro potrebbe rendersi necessario, ad esempio, per recuperare effetti personali. Eventuali autorizzazioni periodiche potrebbero, invece, essere finalizzate alla ricostruzione delle relazioni familiari, con particolare riferimento ai figli, nel caso in cui la condotta dell'indagato dovesse far ritenere attenuate le esigenze di cautela.

Si tratta di una misura sottoposta ai presupposti generali di applicabilità delle misure cautelari contenute nell'art. 274 c.p.p. ed ai limiti di pena previsti dall'art. 280 c.p.p. (76) ("per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni"). È prevista però un'eccezione, avuto riguardo non alla misura della pena, bensì al titolo di reato per cui si procede. (77) Infatti, ai sensi del comma 6 del nuovo articolo 282-bis c.p.p., la misura può essere concessa anche in deroga ai limiti di pena, qualora si proceda per una tipologia di reati intrafamiliari, tassativamente indicati, commessi in danno dei prossimi congiunti (come definiti dall'art. 307 comma 4 c.p.) (78) o del convivente. Tali reati concernono: la violazione degli obblighi di assistenza familiare (ex art. 570 c.p.), l'abuso di mezzi di correzione (ex art. 571 c.p.), la prostituzione minorile (in particolare nell'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 600-bis c.p.), la pornografia minorile (nell'ipotesi di cui al comma 4 dell'art. 600-ter c.p.), la detenzione di materiale pornografico (ex art. 600-quater c.p.), la violenza sessuale (nell'ipotesi di cui al comma 3 dell'art. 609-bis), gli atti sessuali con minorenne (nell'ipotesi attenuata di cui al comma 3 dell'art. 609-quater c.p.), la corruzione di minorenne (ex art. 609-quinquies c.p.), la violenza sessuale di gruppo (nell'ipotesi attenuata in virtù del richiamo dell'art. 609-bis, comma 3 c.p.). In questi casi, pertanto, le misure possono essere adottate anche a fronte di una pena edittale inferiore nel massimo a quella individuata dall'art. 280 c.p.p.

Seconde le norme del procedimento penale, dunque, il giudice, su richiesta del Pubblico ministero, può applicare una misura cautelare personale soltanto se a carico dell'indagato o dell'imputato sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato (ex art. 273, comma 1, c.p.p.), e almeno una delle esigenze cautelari di cui all'art. 274 c.p.p.

Accanto alla misura principale, il legislatore ha previsto una prescrizione accessoria per il caso in cui esistano esigenze di tutela dell'incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti: in particolare, l'obbligo di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa (segnatamente il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti), a meno che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro, nel qual caso il giudice dispone le relative modalità o limitazioni.

In passato, alle esigenze sottese alla nuova misura si faceva fronte piegando, all'occorrenza, senza peraltro oltrepassare i limiti imposti dalla tipicità, le misure coercitive del divieto e dell'obbligo di dimora di cui all'art. 283 del codice di procedura penale. (79) Non era infrequente, ad esempio, che al soggetto accusato del delitto di maltrattamenti in famiglia o di abusi sessuali in danno di familiari fosse applicato, ai sensi dell'art. 283, comma 1 c.p.p., il divieto di dimorare nella casa familiare e di non accedervi senza l'autorizzazione del giudice, nonchè, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, l'obbligo di dimorare in luoghi che non fossero abitualmente frequentati dalla persona offesa o dai suoi congiunti. (80)

L'art. 282-bis c.p.p. sembra, dunque, nella previsione della misura principale e di quella accessoria, aver tipizzato, per una tipologia tassativa di reati, una prassi già esistente. Ma va notato che l'esigenza cautelare e le modalità di esecuzione della nuova misura sono senz'altro più adeguate a raggiungere lo scopo rispetto alla misura dell'art. 283 c.p.p. (81)

Innovativa è sicuramente la previsione di misure provvisorie a contenuto patrimoniale, introdotta nel comma 3 dell'art. 282-bis c.p.p. Il giudice può ingiungere (l'ordine ha efficacia di titolo esecutivo), contestualmente o successivamente alla misura dell'allontanamento, il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi, qualora quest'ultime, per effetto della misura cautelare coercitiva, rimangano prive di mezzi. Non è infatti infrequente che le persone accusate di abusi familiari rappresentino al contempo la sola fonte di reddito della famiglia. Viene così riconosciuto, per la prima volta, un contributo economico al convivente anche in mancanza di figli, non previsto in alcuna ipotesi nella legislazione precedente in materia di famiglia. Il giudice stabilisce le modalità ed i termini del pagamento, ordinando, se necessario, che l'assegno sia versato al beneficiario da parte del datore di lavoro dell'obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante.

Inoltre la misura patrimoniale è suscettibile di modifica, qualora le condizioni economiche dell'obbligato e del beneficiario mutino o la convivenza riprenda.

È interessante notare che la misura patrimoniale provvisoria può teoricamente conseguire a qualsiasi misura coercitiva o interdittiva, purché sussista una situazione di necessità o urgenza: lo si desume dall'art. 1, comma 1, della nuova legge, che ha introdotto il comma 2-bis dell'art. 291 del c.p.p., disposizione a carattere generale in tema di applicazione delle misure cautelari personali. Anche in tal caso il provvedimento patrimoniale perde efficacia qualora la misura cautelare sia successivamente revocata. (82)

Il legislatore non si è però pronunciato sugli effetti, in relazione al trattamento cautelare, dell'eventuale inadempimento - o ritardo nell'adempimento - dell'obbligazione pecuniaria: sembra si possa escludere, attesa la natura patrimoniale della prescrizione, un aggravamento ex artt. 276 o 299 comma 4 c.p.p. (83)

La misura provvisoria patrimoniale (pagamento periodico di un assegno), così come la misura accessoria "personale" (non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti), può essere adottata anche successivamente all'applicazione della misura coercitiva principale dell'allontanamento, sempre che quest'ultima non sia stata revocata o non abbia in qualche modo perso efficacia.

L'accessorietà dei provvedimenti personali e patrimoniali è sottolineata dal fatto che essi perdono automaticamente efficacia se viene revocata o perde comunque efficacia la misura principale (ex art. 282-bis comma 4 c.p.p.).

 

6.3. Nuovo titolo IX bis del Libro I del codice civile: gli artt. 342-bis e 342-ter

Art. 2 Ordini di protezione contro gli abusi familiari.

1. Dopo il titolo IX del libro primo del codice civile è inserito il seguente:

"Titolo IX-bis. ORDINI DI PROTEZIONE CONTRO GLI ABUSI FAMILIARI

Art. 342-bis. (Ordini di protezione contro gli abusi familiari). Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente, il giudice, qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d'ufficio, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all'art. 342-ter.

Art. 342-ter. (Contenuto degli ordini di protezione). Con il decreto di cui all'art. 342-bis il giudice ordina al coniuge o al convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall'istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia di origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.

Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l'intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono privi di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento, e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all'avente diritto dal datore di lavoro dell'obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.

Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell'ordine di protezione, che decorre dal giorno dell'avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore a sei mesi e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.

Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all'esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l'attuazione, ivi compreso l'ausilio della forza pubblica e dell'ufficiale sanitario."

 

6.4. Nuovo Capo V bis del Titolo II del Libro IV del codice di procedura civile: l'art. 736-bis

Art. 3 Disposizioni processuali

1. Dopo il capo V del Titolo II del Libro quarto del codice di procedura civile è inserito il seguente:

"Capo V-bis DEGLI ORDINI DI PROTEZIONE CONTRO GLI ABUSI FAMILIARI

Art. 736-bis. (Provvedimenti di adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari.) Nei casi di cui all'art. 342-bis del codice civile, l'istanza si propone, anche dalla parte personalmente, con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'istante, che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica.

Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso. Il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.

Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare immediatamente l'ordine di protezione fissando l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all'istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. All'udienza il giudice conferma, modifica o revoca l'ordine di protezione.

Contro il decreto con cui il giudice adotta l'ordine di protezione o rigetta il ricorso, ai sensi del secondo comma, ovvero conferma, modifica o revoca l'ordine di protezione precedentemente adottato nel caso di cui al terzo comma, è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma dell'art. 739 c.p.c. Il reclamo non sospende l'esecutività dell'ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile. Del collegio non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

Per quanto non previsto dal presente articolo, si applicano al procedimento, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti."

 

6.5. Art. 4, art. 5, art. 6, art. 7, art. 8

Art. 4 Trattazione nel periodo feriale dei magistrati.

1. Nell'articolo 92, primo comma, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, dopo le parole: "procedimenti cautelari" sono inserite le seguenti: "per l'adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari".

Art. 5 Pericolo determinato da altri familiari.

1. Le norme di cui alla presente legge si applicano, in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente. In tal caso l'istanza è proposta dal componente del nucleo familiare in danno del quale è tenuta la condotta pregiudizievole.

Art. 6 Sanzione penale

1. Chiunque elude l'ordine di protezione previsto dall'art. 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è punito con la pena stabilita dall'articolo 388, primo comma del codice penale. Si applica altresì l'ultimo comma del medesimo articolo 388 del codice penale.

Art. 7. Disposizioni fiscali. Omissis

Art. 8. Ambito di applicazione.

1. Le disposizioni degli articoli 2 e 3 della presente legge non si applicano quando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale è stata proposta domanda di separazione personale ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio se nel relativo procedimento si è svolta l'udienza di comparizione dei coniugi davanti al presidente prevista dall'art. 706 del codice di procedura civile ovvero, rispettivamente, dall'articolo 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni. In tal caso si applicano le disposizioni contenute, rispettivamente, negli articoli 706 e seguenti del codice di procedura civile e nella legge 1° dicembre 1979, n. 898, e successive modificazioni, e nei relativi procedimenti possono essere assunti provvedimenti aventi i contenuti indicati nell'art 342-ter del codice civile.

2. L'ordine di protezione adottato ai sensi degli articoli 2 e 3 perde efficacia qualora sia successivamente pronunciata, nel procedimento di separazione personale o di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio promosso dal coniuge istante o nei suoi confronti, l'ordinanza contenente provvedimenti temporanei ed urgenti prevista, rispettivamente, dall'articolo 708 del codice di procedura civile e dall'articolo 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni. (...) Omissis."

 

6.6. I presupposti soggettivi ed oggettivi degli ordini di protezione contro gli abusi familiari

La legge ha introdotto significativi articoli sia all'interno del codice civile sia all'interno del codice di procedura civile. Dunque anche il giudice civile può adottare misure cautelari provvisorie a tutela delle vittime di violenze familiari; si tratta di misure temporanee che non perdono di vista l'obbiettivo principale che la legge 154/2001 si propone, ossia il recupero dei rapporti all'interno della famiglia.

L'elemento di maggiore novità è senz'altro costituito dall'azione civile, qualificata "ordine di protezione". La tecnica di produzione normativa prescelta dal legislatore è quella della novellazione, attraverso l'introduzione di nuove disposizioni nel corpus del codice civile (e nel codice di procedura civile). La ratio dello strumento utilizzato sta nella volontà di collocare l'ordine di protezione tra le misure di tutela ordinaria e non tra quelle di settore. Sotto il profilo interpretativo, l'inserimento in una disciplina ordinaria consente di riempire le lacune normative e di beneficiare del complesso regime giuridico di riferimento ove compatibile.

La legge, infatti, introduce, nel libro I del codice civile, il titolo IX-bis, sotto la rubrica "Ordini di protezione contro gli abusi familiari", con gli articoli 342-bis e 342-ter c.c. che disciplinano i presupposti e i contenuti di tale misura.

L'ordine di protezione contro gli abusi familiari viene introdotto nel codice civile con l'inserimento dell'art. 342-bis: la scelta è intrinsecamente innovativa, in quanto viene introdotta, nell'ambito della disciplina dei rapporti familiari e filiali, una misura di protezione applicabile anche alle convivenze non riguardanti i figli minori.

L'art. 342-bis prevede che, quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente, e qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d'ufficio, il giudice, su istanza di parte, può adottare uno o più provvedimenti di cui all'art. 342-bis c.c., ossia l'ordine di protezione, il pagamento di un assegno e l'intervento dei servizi sociali, come meglio illustrato infra.

Legittimata attiva a proporre l'istanza, nonché legittimata passiva nei cui confronti l'istanza è presentata, è, rispettivamente, la persona in danno della quale è tenuta la condotta pregiudizievole e quella che ha posto in essere il comportamento lesivo: specificatamente, il coniuge o il convivente, oppure (ex art. 5 della legge) altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge e dal convivente.

Un possibile problema applicativo si pone in relazione ai minori, che la legge omette di menzionare anche solo come soggetti passivi della violenza familiare: infatti l'art. 2 della legge, che istituisce il nuovo art. 342-bis c.c., non fa menzione dei minori, ma solo del coniuge o convivente. Tuttavia è possibile ritenere che i minori possano essere compresi quali soggetti passivi della violenza, tramite la dizione letterale dell'art. 5 della stessa legge, che parla di "altro componente diverso dal coniuge o dal convivente".

Si deve tuttavia sottolineare che l'apparente svista è da imputare alla volontà del legislatore di affidare le fattispecie di violenza sui minori al vaglio del giudice penale. (84) In realtà, però, non vi è alcun ostacolo normativo espresso all'estensione del regime degli ordini di protezione alla tutela dei minori. Il problema si pone dal lato della legittimazione attiva e passiva. Per quanto riguarda la competenza, è possibile risolvere il conflitto di competenza con il Tribunale per i Minorenni a favore del Tribunale ordinario, tramite l'applicazione del criterio residuale indicato nell'art.38 delle disposizioni di attuazione del codice civile. (85) Nonostante l'informalità del procedimento (la parte può agire in giudizio senza il patrocinio di un avvocato), non si può invocare una legittimazione attiva diretta del minore: né è possibile nominare un curatore ad acta perché contrastante con l'urgenza di provvedere che caratterizza l'ordine di protezione.

Anche se il Pubblico ministero potrebbe intervenire nel procedimento ai sensi dell'art. 70 comma 3 c.p.c., (86) è escluso che tale organo possa essere parte promotrice dell'azione civile, in quanto la legge n. 154/2001 non lo ha espressamente previsto, e dunque tale organo deve ritenersi non obbligatorio, esulando il procedimento da quelli contemplati nell'art. 70 comma 1 c.p.c.). (87) Non é dunque chiaro come l'art. 5 sia compatibile con la legittimazione attiva diretta del minore. Va però osservato che non può essere esclusa a priori la legittimazione ad agire del genitore, per il grave pregiudizio derivante dalla violenza domestica subita dal minore. La legittimazione indiretta del genitore è anzi auspicabile per evitare che sia il minore a dover essere allontanato dalla residenza familiare, nel caso in cui sia introdotto un giudizio di decadenza della potestà genitoriale ex art. 330 c.c. (88) Essendo la legge recente, è necessario attendere, su questo punto, che la dottrina e la giurisprudenza facciano chiarezza.

Anche per quanto riguarda la legittimazione passiva del minore, qualora questi sia responsabile della condotta pregiudizievole nei confronti di altri membri della famiglia, non vi è ancora chiarezza. Ci si chiede, a tal proposito, se il genitore o l'avo possano adire al Tribunale ordinario per chiedere che il giudice emetta un ordine di protezione nei confronti di un minore violento.

 

6.6.1. Requisiti oggettivi

Sul piano oggettivo i presupposti dell'azione civile vengono identificati, dall'art. 342-bis c.c., nella sussistenza di una condotta "causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro". Il presupposto di ordine positivo è costituito da una locuzione comprensiva dei vari aspetti e modi in cui si può esprimere la violenza familiare (fisica, morale, economica, psicologica ovvero sessuale). (89) Dunque può essere frequente la riconducibilità della condotta ai reati di ingiuria (art. 594 c.p.), di percosse (art. 581 c.p.) o ad altre fattispecie penali, quali la violazione degli obblighi familiari (art. 570 c.p.) e la minaccia (art. 612 c.p.), tutti procedibili a querela.

A differenza di quanto avviene nel procedimento penale (in cui il giudice applica, su richiesta del Pubblico ministero, una misura cautelare personale di tipo coercitivo, se a carico dell'indagato o dell'imputato sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato e almeno una delle esigenze cautelari), il giudice civile, ai fini dell'adozione degli ordini di protezione di cui all'art. 342-ter c.c., deve verificare, su istanza di parte, la sussistenza di un grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà. Il giudice deve dunque accertare se la condotta pregiudizievole abbia comportato la lesione di un diritto della personalità, ed in particolare della salute (integrità fisica), dell'onore e della reputazione (integrità morale), nonché della libertà personale, intesa come capacità di autodeterminazione della persona. Inoltre, deve valutare la gravità del pregiudizio in relazione sia alla gravità e pericolosità della singola condotta violenta tenuta, sia della sua reiterazione.

La condotta, peraltro, non deve integrare un reato perseguibile d'ufficio, nel qual caso l'unica sede per la tutela dei diritti violati rimane il procedimento penale. L'inserimento del requisito di ordine negativo, ossia la non applicabilità degli ordini di protezione nel caso si versi in un reato procedibile d'ufficio - inserimento avvenuto nell'ultima stesura della Camera dei Deputati, successivamente approvata in Senato - ha sollevato da parte degli studiosi numerosi critiche. Si sostiene infatti che questa limitazione "non solo pregiudica l'intenzione originaria del legislatore di creare un doppio binario (penalistico e civilistico) a scelta della persona offesa, ma può determinare in concreto una drastica riduzione dell'accesso al nuovo strumento di tutela civile, profilandosi estremamente alto il rischio che il giudice civile dichiari inammissibile il ricorso, proprio in quanto i fatti lamentati dal ricorrente configurano un reato perseguibile d'ufficio, giungendo così all'assurdo che, proprio ove la situazione rappresenta un grave (se non gravissimo) pregiudizio alla persona offesa, la domanda può essere dichiarata inammissibile." (90) Infatti, le vittime si vedrebbero impedite l'accesso agli ordini di protezione proprio per il reato che con più frequenza si realizza all'interno dell'ambito familiare, ossia il reato di maltrattamenti in famiglia, con la conseguenza che, proprio per il caso in cui c'è maggior necessità di intervento, il ricorso potrebbe essere respinto.

Rimane il potere-dovere da parte del Tribunale civile di trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica per l'avvio del procedimento penale. Solo in tale sede potrà essere emessa la misura dell'allontanamento, ma sulla base di presupposti diversi rispetto all'azione civile e con una notevole limitazione alla tempestività dell'intervento, che era invece garantita, in sede civile, dalla deformalizzazione del contraddittorio propria dei procedimenti semplificati in camera di consiglio.

"La previsione del presupposto di ordine negativo è giustificata in maniera non convincente, nella relazione del disegno di legge, con l'argomentazione che si è preferito escludere il rimedio civilistico per le ipotesi più gravi in quanto "l'attribuzione di tale strumento anche al giudice civile significherebbe stravolgere il sistema, venendo assegnati a tale giudice compiti che spettano naturalmente al giudice penale, senza peraltro prevedere le garanzie proprie del processo penale". La preoccupazione sembra priva di fondamento, in quanto la tutela della persona offesa non costituisce l'effetto delle misure cautelari ed è generalmente affidata al giudice civile, e le garanzie del contraddittorio dell'azione civile non sono inferiori a quelle del giudizio penale, essendo per entrambe le misure previste il doppio grado di giurisdizione. (91) Nel giudizio civile, la mancanza di un giudizio successivo a cognizione piena è giustificata dalla temporaneità della misura, prorogabile una solo volta per lo stretto tempo necessario. C'è infine da sottolineare la maggiore resistenza a ricorrere allo strumento penale per la denuncia delle violenze endofamiliari, che come tale può minare l'effettività della tutela che il legislatore ha voluto apprestare." (92)

 

6.6.2. Requisiti soggettivi

Ad una prima lettura, gli immediati destinatari delle disposizioni di cui all'artt. 2 e 3 della legge 154/2001 sono il coniuge od altro convivente, (93) dovendosi intendere per tale colui che abbia una relazione familiare qualificata da un quid pluris rispetto, da un lato, alla semplice sussistenza di meri rapporti di assistenza e solidarietà, e dall'altro alla mera coabitazione. La relazione familiare dev'essere caratterizzata, invece, da una comunanza di vita abituale e stabile, che può esistere anche indipendentemente da un rapporto di parentela ed affinità. (94) In ordine ai requisiti soggettivi, l'equiparazione del convivente al coniuge si coglie particolarmente nella legittimazione attiva del convivente, senza limitazioni derivanti dalla presenza di figli minori o dalla titolarità di una situazione soggettiva qualificata rispetto al domicilio familiare. (95) Nei nuclei familiari non derivanti da matrimonio, i conviventi non proprietari o titolari di diritto personale di godimento non avevano, prima della legge 154/2001, la disponibilità di strumenti di tutela conservativi della residenza familiare. Il convivente poteva conservare il domicilio solo se affidatario dei figli minori o coabitante con maggiorenni non autosufficienti. (96) Invece con l'ordine di protezione il convivente può ottenere, ancorché temporaneamente, l'assegnazione della casa familiare, oltre alla liquidazione di un assegno di mantenimento, anche in mancanza dei presupposti di cui all'art. 155 c.c. (97)

La definizione del campo di intervento dell'ordine di protezione si completa con l'estensione agli altri componenti del nucleo familiare della legittimazione attiva e passiva stabilita nell'art. 5. La locuzione "altro componente del nucleo familiare", di derivazione sociologica, autorizza a ritenere applicabile l'ordine di protezione a tutte quelle situazioni concrete caratterizzate dalla violenza fisica e/o psicologica che si possono produrre in una condizione di convivenza familiare, indipendentemente dal legame di parentela o affinità sussistente tra le parti. "L'estensione soggettiva indicata nell'art. 5 lascia alla giurisprudenza un ampio spazio creativo nella individuazione delle relazioni e dei vincoli di natura non patrimoniale che meritano riconoscimento giuridico attraverso la tutela giudiziale esaminata." (98)

 

6.7. Il contenuto degli obblighi di protezione

Le misure cautelari che il giudice può adottare sono specificate nell'art. 342-ter c.c. e si collocano in una posizione intermedia rispetto a quelli che fino ad oggi sono stati gli unici strumenti di tutela per le vittime di maltrattamenti in famiglia: da una parte la denuncia-querela in sede penale, con la possibilità di sollecitare il Pubblico ministero a richiedere l'applicazione della misura cautelare coercitiva del divieto di dimora, dall'altra la presentazione di un ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c. (99) oppure di un ricorso per separazione personale in sede civile, con l'inevitabile conseguenza, in tutti questi casi, della definitiva rottura del legame familiare. Attraverso l'introduzione degli ordini di protezione, il legislatore ha inteso offrire una terza via, anche se limitatamente alle situazioni di conflitto meno grave che non costituiscono un reato perseguibile d'ufficio, predisponendo gli strumenti per ottenere in sede civile un tempestivo intervento di contenimento della violenza, nell'ottica di una tutela volta all'attenuazione della conflittualità ed al recupero delle relazioni familiari.

In base all'art. 342-ter c.c., il giudice può:

- ordinare a chi ha tenuto la condotta pregiudizievole la cessazione della medesima, e congiuntamente disporre l'allontanamento dalla casa familiare del membro violento;

- prescrivere, ove occorra, al soggetto allontanato dalla casa familiare di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia di origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia. È fatta salva l'ipotesi in cui i luoghi vietati debbano esser frequentati per esigenze di lavoro (art. 342-ter comma 2 c.c.);

- disporre, ove occorra, l'intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e di maltrattamenti (art. 342-ter, comma 2 c.c., prima parte);

- imporre, a carico del soggetto allontanato dalla casa familiare, l'obbligo del pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che rimangano, per effetto dell'allontanamento, prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini del pagamento, e prescrivendo, se del caso, che la somma venga versata all'avente diritto dal datore di lavoro dell'obbligato, detraendola dalla retribuzione a quest'ultimo spettante (art. 342-ter, comma 2 c.c. seconda parte). Così come in ambito penale, la misura patrimoniale accessoria serve di incentivo alle persone maltrattate, che spesso si trovano a subire passivamente la violenza per timore di non essere in grado da sole di far fronte alle esigenze economiche della famiglia.

Per quanto riguarda l'allontanamento dai luoghi quali la casa, il luogo di lavoro, i luoghi di istruzione dei figli o di domicilio dei prossimi congiunti, la specificazione appare opportuna, in quanto, dai rilievi statistici effettuati dai centri antiviolenza e dalle case delle donne, risulta che la violenza familiare ha per scenario dell'aggressione non solo la casa di abitazione, ma, in significativa presenza, anche i luoghi dove il soggetto passivo si reca abitualmente.

Per quanto riguarda i punti c) e d), si nota che il legislatore ha voluto attribuire al giudice dei poteri d'intervento integrativi dell'ordine di protezione, svincolati dall'istanza di parte e caratterizzati dalla partecipazione di organismi pubblici e privati, identificati in modo tassativo nei servizi sociali del territorio, nei centri di mediazione familiare e nelle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e di maltrattamenti. L'intervento dovrebbe essere finalizzato al sostegno delle parti durante l'attuazione della misura ed alla preparazione della fase successiva all'esaurimento degli effetti degli ordini di protezione, ossia all'eventuale ritorno alla casa familiare del membro violento o al suo definitivo allontanamento. Questa specifica tipologia di prescrizioni è esterna al contenuto dell'ordine di protezione, costituito esclusivamente dall'allontanamento e dall'eventuale obbligo di corrispondere l'assegno in favore dei rimanenti componenti del nucleo familiare. Questa distinzione è fondamentale, in quanto, mentre l'ordine di protezione può essere imposto in via coercitiva, tramite l'ausilio delle forze dell'ordine, la partecipazione ai programmi di mediazione familiare o all'attività dei centri identificati dalla legge non solo non può essere imposta in via coercitiva, ma è produttiva di effetti solo se liberamente seguita.

Il contenuto coercitivo limitato al solo ordine di protezione (cogente per l'ordine di protezione stesso ed esecutivo per l'obbligo del versamento dell'assegno), non esteso ai programmi di intervento e sostegno, consente di definire l'ambito della sanzione penale stabilita nell'art. 6 della legge, che ovviamente si applica solamente al primo. (100)

La previsione dell'intervento dei servizi sociali è comunque una scelta opportuna, in quanto il fine della legge è il recupero dei rapporti familiari, specie laddove vi sono dei figli minori, potendosi ritenere possibile per il giudice assumere i provvedimenti consequenziali soprattutto in ordine al concreto esercizio della patria potestà. (101) Questo perché la legge non ha chiaramente dato al giudice anche il potere di emettere provvedimenti riguardanti la tutela e l'affidamento dei minori per la durata massima della misura cautelare, ovvero il potere di disporre la trasmissione degli atti al Tribunale per i Minorenni per gli atti di sua competenza. Sembrerebbe dunque che, in assenza di precise disposizioni, sebbene un genitore sia allontanato, permanga l'affidamento congiunto e la potestà di entrambi i genitori sui figli. (102) Anche su questo punto si auspica chiarezza da parte della dottrina e della giurisprudenza.

Poiché il giudice è libero di individuare le modalità di attuazione della misura, si può ragionevolmente ritenere che l'art. 342-ter c.c. non contenga un elenco tipizzato del contenuto degli ordini di protezione, soprattutto per quanto riguarda la cessazione del comportamento pregiudizievole.

 

6.8. La durata

Le misure sono provvisorie: il giudice, infatti, ne stabilisce la durata, che non può essere superiore a sei mesi. In tale lasso di tempo i coniugi (o i conviventi) devono essere in grado di risolvere la situazione conflittuale, accettando di ritornare sotto lo stesso tetto, ovvero optando per la separazione (o per l'allontanamento volontario).

La norma prevede, tuttavia, che il termine è prorogabile, su istanza di parte, per il tempo strettamente necessario e soltanto se ricorrano gravi motivi (art. 342-ter, comma 3 c.c.). Secondo certa dottrina, (103) "si tratta di una previsione non chiara che attribuisce un ampio potere discrezionale al giudice, in quanto non si prevede alcun termine finale predeterminato per la proroga, né si escludono (e quindi implicitamente si ammettono) ulteriori proroghe dopo la prima." Questa posizione non sembra condivisibile, intanto perché la legge, utilizzando l'espressione "per il tempo strettamente necessario", ha inteso dare un termine finale: quindi la proroga non può che essere a tempo determinato, e non a tempo indeterminato. Inoltre, bisogna tener presente che, contro la proroga della misura, vi è la possibilità di reclamo ex art. 739 c.p.c., con la conseguenza che il potere del giudice, apparentemente discrezionale, è sempre soggetto al controllo del collegio (di cui non fa parte il giudice che ha emanato la misura). È possibile, dunque, che il giudice conceda una o più proroghe (ma non saranno infinite, in quanto altrimenti verrebbe meno l'utilità della misura stessa che ha proprio un carattere temporaneo). Ciò avverrà, inoltre, solo a seguito di un attenta analisi dei fatti e delle circostanze, cioè dopo aver ammesso le ulteriori informazioni di natura personale e patrimoniale dei coniugi (o conviventi), ed aver accertato che esistano le condizioni necessarie per la proroga, onde evitare un'eccessiva compressione dei diritti fondamentali dei componenti della famiglia.

Il giudice determina altresì le modalità di attuazione, e, ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all'esecuzione, provvede con decreto a emanare i provvedimenti più opportuni per l'attuazione, ivi compreso l'ausilio della forza pubblica e dell'ufficiale sanitario. Anche in questo caso, non è chiaro come il coniuge o il convivente debba dimostrare la contestazione dell'ordine da parte dell'altro al fine di far intervenire le forze dell'ordine, salvo che il decreto del giudice non contenga una data tassativa per abbandonare la casa familiare, e che il mancato allontanamento spontaneo oltre la data e l'ora fissata dal giudice possa integrare gli estremi dell'intervento della forza pubblica.

A differenza dei provvedimenti emessi ai sensi dell'art. 708 c.p.c. (incluso l'allontanamento del coniuge a seguito di assegnazione della casa familiare), che hanno efficacia esecutiva immediata o che possono essere sottoposti ad esecuzione coattiva in via breve da parte dello stesso giudice che ha emesso il provvedimento o alla normale procedura di esecuzione forzata di competenza del diverso giudice dell'esecuzione, (104) la misura ex art. 342-bis c.c. non sembra essere assistita da immediata efficacia esecutiva. Tuttavia è possibile che l'apparente lacuna possa essere colmata tramite l'applicazione analogica dell'art. 669-duodecies c.p.c., in base al quale "... l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalità di attuazione, e ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni ...".

Inoltre, è possibile che il legislatore abbia intenzionalmente preferito non dotare di efficacia esecutiva il provvedimento emanato ex 736-bis c.p.c, al fine di lasciare alla parte, una volta ottenuto il provvedimento, la decisione finale sul metterlo in atto o meno. In tal modo si spiega anche la scelta della sanzione ex art. 388 c.p. comma 1 nel caso di elusione dell'ordine di protezione (vedi infra).

 

6.9. Le sanzioni

L'art. 6 della legge n. 154 prevede che chiunque eluda uno degli ordini di protezione previsto dall'art. 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, è punito con la pena prevista dall'art. 388, comma 1, c.p. Si applica altresì l'ultimo comma del medesimo articolo. (105)

Come noto, l'art. 388 c.p. disciplina il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. In particolare, la pena applicabile all'ipotesi di reato di cui al comma 1 è la reclusione fino a tre anni o la multa da duecentomila a due milioni di lire; l'ultimo comma prevede la punibilità a querela della persona offesa, in quanto è la vittima della violenza che deve esprimere la volontà che il colpevole sia punito, tramite la segnalazione al giudice della mancata esecuzione spontanea dell'ordine di protezione.

L'art. 388 c.p. è, dunque, soltanto richiamato quod penam, nonché per la punibilità del reato a querela di parte. (106) Infatti, ciò che rileva è l'elusione del provvedimento del giudice, pertanto non c'è necessità di richiamare la fattispecie prevista dall'art. 388, la cui configurabilità è particolarmente complessa, (107) bensì è sufficiente il richiamo alla pena.

 

6.10. La procedura per l'adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari

L'art. 3 della legge 154/2001 ha aggiunto il capo V-bis al codice di procedura civile, costituito dal nuovo art. 736-bis del c.c. secondo il quale, quando sussistono i presupposti di cui all'art. 342-bis del c.c., l'istanza può essere proposta anche dalla parte personalmente: in altre parole, l'azione può essere esercitata dalla parte anche senza l'assistenza del difensore. Tale possibilità rappresenta un vantaggio solo apparente, dato l'elevato tasso tecnico su cui si fonda la tutela giudiziaria. La scelta, ispirata alle finalità di rendere più snello e meno oneroso il procedimento (tanto è vero che tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento in esame sono esenti da imposte e tasse) lascia perplessi, in quanto proprio una materia così tecnica e delicata, che coinvolge diritti di primaria importanza, avrebbe dovuto invece richiedere necessariamente la presenza di un legale. (108) L'accesso alla giustizia viene garantito soprattutto per le situazioni che rendono necessario l'ordine di protezione, rendendo fruibili a tutti la difesa tecnica.

L'istanza deve avere la forma del ricorso e deve essere depositata presso il Tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'istante; il Tribunale provvede in camera dei consiglio in composizione monocratica. Si tratta di uno dei casi, espressamente previsti dall'art. 50-bis c.p.c., in cui la competenza per i procedimenti in camera di consiglio ex art. 737 c.p.c. non spetta al Tribunale in composizione collegiale, bensì a quello monocratico; il citato articolo 50-bis del c.p.c, infatti, introdotto dall'art. 56 del dlgs 19 febbraio 1998, n. 51, istitutivo del giudice unico di primo grado, prevede, tra i casi per i quali è prevista la competenza del Tribunale in composizione collegiale, i provvedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli art. 737 c.p.c. e seguenti, a meno che non sia altrimenti disposto.

Viene così configurato un nuovo procedimento con elementi propri di quello cautelare (109) e della volontaria giurisdizione. (110) In comune con il procedimento cautelare, quello neo-istituito presenta il fatto che competente è il giudice monocratico, la cui decisione è oggetto di reclamo al collegio, di cui non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Peraltro l'ordine di protezione, al contrario di un provvedimento cautelare, non è strumentale ad una pronuncia da assumersi nella pienezza della cognizione, (111) ma è di per sé idoneo a realizzare in modo definitivo la tutela degli interessi azionati in giudizio.

Per espressa previsione del legislatore, il procedimento, tanto in primo grado quanto in sede di reclamo, avviene in camera di consiglio: ad esso si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 e seguenti c.p.c. (112) Come noto, il procedimento camerale ex art. 737 c.p.c. è tendenzialmente idoneo a disciplinare l'ipotesi in cui il giudice sia chiamato non ad assicurare la tutela giurisdizionale di diritti o status, bensì a gestire interessi devolutigli in via volontaria o costituzionalmente non necessaria dal legislatore ordinario. Secondo autorevole dottrina, (113) "il richiamo quoad proceduram agli artt. 737 ss., non deve apparire strano ove si abbiano presenti i rilievi svolti circa la particolare contiguità tra processi sommari-semplificati-esecutivi, (114) ossia processi sommari cautelari sganciati dal requisito del periculum e con strumentalità allentata, e procedura camerale ex art. 737 ss."

Inoltre il procedimento ex art. 736-bis c.p.c e quello disciplinato dagli artt. 737 e seguenti c.p.c. sono accomunati dalla speditezza e urgenza della procedura, dalla revocabilità, dalla modificabilità della decisione del giudice, nonché dalla non idoneità della decisione stessa a dar luogo alla cosa giudicata. (115)

Il presidente del Tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso. Il giudice, se non vi sono ragioni di urgenza, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti. Al termine dell'istruttoria il giudice provvede all'adozione della misura cautelare, ovvero al rigetto del ricorso con decreto motivato, che è immediatamente esecutivo (art. 736-bis). Risulta, dunque, che il giudice è dotato di ampi poteri istruttori ufficiosi, da esercitarsi soprattutto nei confronti di pubbliche autorità che siano in grado di integrare il quadro probatorio. Possono essere assunte prove atipiche, (116) come testi informatori, relazioni peritali di parte, informazioni, anche da rappresentanti di uffici pubblici a conoscenza della situazione familiare, quali ad esempio i servizi sociali.

Nei casi d'urgenza, peraltro, il giudice, assunte dove occorra sommarie informazioni, può adottare immediatamente l'ordine di protezione, in base al comma 3 dell'art. 736 bis c.p.c, sul modello dei procedimenti cautelari, che ammettono la possibilità di adozione di un provvedimento inaudita altera parte. In tale ipotesi, il giudice fissa l'udienza di comparizione davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando alla parte che ha proposto l'istanza un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto di adozione della misura. (117) All'udienza di comparizione delle parti il giudice può confermare, modificare o revocare l'ordine di protezione precedentemente adottato (art. 736-bis comma 3). Nel caso in cui l'ordine di protezione venga accordato inaudita altera parte, (118) si avrà dunque un contraddittorio differito. Nel silenzio della norma, è da ritenere che il giudice possa esercitare tale potere solo in casi eccezionali, quando instaurare il contraddittorio, ancorché in tempi brevissimi per la notifica del ricorso e la comparizione, potrebbe esporre l'istante, con elevata probabilità, ad un pregiudizio gravissimo. (119)

Contro il decreto con cui il giudice adotta l'ordine di protezione o rigetta il ricorso, ai sensi del comma 2, ovvero contro il decreto con cui conferma, modifica o revoca l'ordine di protezione precedentemente adottato (nel caso di cui al comma 3), è ammesso reclamo al Tribunale entro i termini perentori previsti dall'art. 739 c.p.c., ossia 10 giorni dalla comunicazione del decreto - se dato nei confronti di una sola parte - o 10 giorni dalla notificazione, se dato nei confronti di più parti.

Il reclamo, in ogni caso, non sospende l'esecutività degli ordini di protezione. Sul reclamo provvede il Tribunale in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile. È prevista, inoltre, una causa di incompatibilità, nel senso che il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato non può far parte del collegio che decide sul reclamo (art. 736-bis, comma 4, c.p.c.).

Da tale disciplina si rileva che il modello processuale prescelto dal legislatore per l'ordine di protezione non è quello della cognizione piena, bensì quello della cognizione sommaria. La misura dell'allontanamento dalla casa familiare, infatti, viene adottata sulla base di una cognizione sommaria modellata sul procedimento cautelare, uniforme sia per il primo grado che per la fase del reclamo. L'accoglimento del ricorso deriva dall'accertamento di una situazione di fatto (il grave pregiudizio all'integrità fisica o morale del coniuge o del convivente - o di altri membri ex art. 5 della legge) ed è diretta ad impedirne la continuazione. È importante notare che l'ordine di protezione non è finalizzato a modificare in modo definitivo la situazione coniugale o di coabitazione, ma ad incidere solo in modo temporaneo, secondo le esigenze del caso concreto.

Sembra si possa sostenere che la legge non abbia introdotto alcun nuovo diritto della persona nei rapporti familiari, e che, conseguentemente, gli ordini di protezione non possano avere alcun effetto ablativo sui medesimi. Ciò consegue all'aver scelto un procedimento ex art. 737 c.p.c: infatti, "se la gestione di interessi, che il giudice è chiamato a fare nelle forme degli artt. 737 ss. c.p.c, presuppone l'accertamento di diritti soggettivi o status, tale accertamento è effettuato incidenter tantum; ovvero è funzionale solo alla emanazione di un provvedimento camerale avente ad oggetto immediato la gestione di interessi." (120) Si potrà quindi, al massimo, ipotizzare una compressione dei diritti di circolazione e soggiorno del destinatario della misura, ma ciò soltanto in quanto il provvedimento urgente è diretto a tutelare diritti fondamentali della vittima, costituzionalmente garantiti e parimenti rilevanti. Ciò potrebbe costituire uno dei motivi che ha spinto il legislatore a scegliere per una cognizione sommaria, oltre alle esigenze di celerità e speditezza della decisione nei casi d'urgenza, in forza dei quali i procedimenti per l'adozione di ordini di protezione possono essere trattati anche durante il periodo feriale. Tra l'altro, la cognizione sommaria non esclude in alcun modo l'azionabilità in un futuro processo a cognizione piena dei diritti lesi dalla condotta pregiudizievole posta a base dell'ordine di protezione. In tale contesto sarà ipotizzabile, oltre all'accertamento della lesione dei suddetti diritti (all'onore, alla dignità, etc.), anche un'eventuale richiesta di risarcimento danni, che invece non può essere formulata in aggiunta alla misura cautelare degli ordini di protezione.

Fattori positivi conseguenti alla scelta del modello a cognizione sommaria sono la riproponibilità dell'istanza, la revocabilità del provvedimento e la reiterazione dell'istanza una volta cessata l'efficacia dell'ordine di protezione concesso dal giudice. (121)

La mancanza di un giudicato rende senz'altro riproponibile il ricorso anche oltre i limiti indicati dall'art. 669-septies (122) per i provvedimenti cautelari, non essendovi un richiamo espresso all'applicazione del procedimento cautelare uniforme. (123)

Infine, si deve ritenere possibile la modificabilità dell'ordine di protezione su istanza di parte, sia in senso estensivo che limitativo, salvo definire con certezza se l'intervento del giudice sia solo correttivo o dia origine ad un'altra misura. La differenza può essere rilevante ai fini della durata complessiva dell'efficacia del provvedimento; alla stessa conclusione può giungersi per la revoca, cui va estesa però la reclamabilità. (124)

 

6.11. Natura dell'ordine di protezione

Come supra trattato, l'art. 5 della legge n. 154/2001 introduce una peculiare misura d'urgenza. Alcuni dubbi sorgono in merito alla natura di tale misura. Infatti, gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, per la temporaneità che li caratterizza, per l'articolato procedimento (che ricalca in alcune linee lo schema dei procedimenti cautelari), per il richiamo espresso al procedimento ex art. 737 c.p.c. (in quanto compatibile), nonché per la necessità del grave pregiudizio e la cognizione sommaria anche nel contraddittorio, sembrano potersi iscrivere nella categoria dei provvedimenti cautelari, ma, a differenza di quest'ultimi, sono svincolati da una funzione prodromica rispetto alla cognizione piena.

Infatti, anche se l'art. 669-quaterdecies c.p.c., (125) norma di chiusura del procedimento cautelare uniforme, estende l'applicazione del modello processuale ai provvedimenti cautelari previsti nel codice civile, l'ordine di protezione difficilmente può essere qualificato come misura cautelare, in quanto non strumentale all'accertamento del diritto a cognizione piena. (126)

L'ordine di protezione potrebbe, infatti, essere incluso tra quei provvedimenti sommari-semplificati-esecutivi, a cui si riferisce autorevole dottrina, ossia tra quei provvedimenti dotati solo di efficacia esecutiva, ma privi di qualsiasi idoneità a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso (ovvero non aventi attitudine al giudicato). (127) A questi sono applicabili analogicamente taluni artt. da 669-bis a 669 quaterdecies c.p.c., (128) ed in particolare l'art. 669-sexies relativo al procedimento, l'art. 669 decies in tema di revoca e modifica, l'art. 669-duodecies in tema di attuazione e l'art. 669-terdecies in tema di reclamo.

Non saranno invece applicabili agli ordini di protezione gli artt. 669-octies e 669-novies c.p.c., per difetto del requisito della strumentalità. Tale requisito è invece tipico del provvedimento cautelare, per cui quest'ultimo è destinato a perdere efficacia ove il processo a cognizione piena non sia instaurato entro il termine perentorio fissato dal giudice o dalla legge, nonché ove quest'ultimo, successivamente al suo inizio, si estingua.

 

6.12. Ambito di applicazione

Le norme sostanziali (artt. 342-bis e 342-ter c.c.) e processuali (art. 736-bis c.p.c) introdotte dalla legge n. 154/2001 non si applicano quando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale è stata proposta domanda di separazione personale ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se, nel procedimento di separazione o divorzio, abbia già avuto luogo l'udienza di comparizione dei coniugi davanti al presidente del Tribunale, prevista rispettivamente, dall'art. 706 c.p.c. e dall'art. 4 della legge sul divorzio. In tali casi, si applicano le disposizioni previste in via ordinaria per i procedimenti di separazione e di divorzio.

Dunque, dopo la comparizione davanti al presidente del Tribunale in un giudizio di separazione o di divorzio, i provvedimenti di adozione degli obblighi di protezione sono sostituiti dai provvedimenti provvisori adottati, per la separazione, ex art. 708 c.p.c., e per il divorzio dall'art. 4 della legge 898/1970 e successive modificazioni. Con i predetti provvedimenti, infatti, il presidente del Tribunale decide, tra l'altro, in ordine all'assegnazione della casa familiare a uno dei coniugi, stabilendo l'obbligo per l'altro di allontanarsene, nonché in merito al versamento dell'assegno di mantenimento a carico di una delle parti. Si tratta, in sostanza, degli stessi elementi dell'ordine di protezione, con la differenza che in fase di separazione o divorzio i provvedimenti sono volti a regolare in modo stabile la situazione dei coniugi. (129)

L'art. 8 della legge n. 154/2001 prevede, tuttavia, che gli ordini di protezione possano essere assunti anche nel corso dei procedimenti di separazione o di divorzio. Pertanto, al giudice istruttore, durante il giudizio di separazione o divorzio, potrà essere richiesta l'adozione di un ordine di protezione. Tale ordine potrà avere per oggetto anche l'allontanamento dalla casa coniugale, quando il presidente del Tribunale nulla abbia disposto circa l'assegnazione della casa medesima, in mancanza di prole minorenne, oppure, si può ipotizzare, nelle more dell'esecuzione spontanea di allontanamento dalla casa familiare a seguito dell'assegnazione. Pare invece da escludere che il giudice istruttore possa emettere un ordine di pagamento a carico del datore di lavoro, essendo la materia regolata, con disposizione di natura speciale, dagli artt. 148 comma 2 cc, e 156 comma 6 c.c. e comma 3 l. n. 898/1970. (130)

Gli ordini di protezione, pertanto, potranno essere chiesti ed emessi anche durante il tempo intercorrente tra il deposito del ricorso per separazione o divorzio e l'udienza presidenziale: essi, però, una volta adottati i provvedimenti presidenziali, sono destinati a perdere automaticamente efficacia. (131)

In pendenza dei procedimenti di separazione o di divorzio, peraltro, possono essere adottate le misure di cui all'art. 342-ter c.c., ma soltanto nella fase successiva a quella presidenziale, ossia davanti al giudice istruttore.

Il tenore letterale della norma sembra escludere che il presidente del Tribunale possa assumere gli ordini di protezione, ma siffatta interpretazione appare estremamente contraddittoria: infatti, da un lato sarebbe caducato l'ordine di protezione anteriore, e dall'altro non si potrebbe assumere un altro ordine, se non da parte del giudice istruttore, nella fase successiva del procedimento. Sembra quindi preferibile interpretare la previsione normativa nel senso che anche il presidente possa discrezionalmente assumere tali provvedimenti, evitando così una soluzione di continuità che potrebbe talora rivelarsi assai pregiudizievole. (132)

 

6.13. La tutela del minore: conflitti di competenza con il Tribunale per i Minorenni

Come supra evidenziato, l'ambito di applicazione della legge n. 154/2001, e quindi dei nuovi articoli 342-bis e 342-ter c.c., è in realtà ridefinito dall'art. 5 della stessa legge, il quale dispone che le norme della legge si applicano, in quanto compatibili, anche al caso in cui la condotta pregiudizievole sia tenuta da altro componente del nucleo familiare, ovvero nei confronti di altro membro dello stesso. La formulazione di detta norma lascia intendere che, quale componente del nucleo familiare, anche il figlio minore possa essere soggetto attivo o passivo della condotta che legittima l'esercizio dell'azione civile contro le violenze nelle relazioni familiari, e quindi parte ricorrente o resistente nella stessa.

La disposizione in esame viene così a richiamare, per alcuni aspetti, le novità introdotte dalla legge n. 149 del 2001 agli articoli 330 e 333 c.c., laddove tra le misure che il Tribunale per i Minorenni può adottare nell'interesse del minore è stato introdotto anche l'allontanamento dalla residenza familiare del genitore o del convivente che maltratta. Tale provvedimento, prima della legge n. 149/2001, non era considerato applicabile tramite la lettura degli art. 330 e 333 c.c. (133)

Desta perplessità il fatto che la legge n. 154 del 2001 non sia stata più esplicita nell'includere, o, alternativamente, nell'escludere i minori dalla possibile lista di soggetti attivi o passivi della misura introdotta. Tenendo conto che tra la legge 154 del 2001 e la legge 149 del 2001 intercorrono solo tre settimane di tempo, non si comprende il motivo per cui il minore dovrebbe godere della protezione della misura dell'allontanamento dalla casa familiare in base ad entrambe le leggi. Inoltre, data l'ampiezza dei poteri concessi al giudice minorile, non sembra nemmeno potersi sostenere che le misure previste ex artt. 342-bis e 342-ter c.c. siano più ampie di quelle ex artt. 330 e 333 c.c. novellati dalla 149 del 2001. Sembra plausibile, dunque, ravvisare un difetto di coordinamento tra le due normative, che, in attesa di chiarimenti, dà adito a più interpretazioni. Può comunque cogliersi una differenza tra le due normative, nel senso che solo la 154 /2001 può applicarsi ai figli maggiorenni conviventi (sia che questi siano autori della violenza, sia che ne siano vittime). Solo questo strumento potrà tutelare un figlio maggiorenne dalla violenza dei suoi familiari.

L'attuale quadro normativo consente quindi di ipotizzare diverse procedure civili, mediante le quali è offerta tutela al minore che subisca maltrattamenti fisici o morali in famiglia, ovvero:

a) Il Tribunale per i Minorenni

Nell'ambito del procedimento per la decadenza dalla potestà genitoriale, disciplinato dall'art. 330 c.c., che ha come presupposto il fatto che il genitore violi o trascuri i doveri, o abusi dei poteri inerenti la potestà, il Tribunale per i Minorenni potrà disporre l'allontanamento del genitore che maltratta o abusa del minore, anziché, come succedeva in precedenza, allontanare il minore dalla casa familiare, eventualmente accompagnato dal genitore non abusante.

In presenza di una condotta pregiudizievole di uno o entrambi i genitori, che non sia tale da dar luogo a decadenza dalla potestà genitoriale (ai sensi dell'art. 333 c.c.), il Tribunale per i Minorenni, analogamente, potrà disporre l'allontanamento del genitore o del convivente o componente del nucleo familiare che maltratta o abusa del minore. (134)

b) Il Tribunale ordinario

Per effetto degli articoli 5 e 2 della legge n. 154/2001, il Tribunale ordinario potrà essere adito nell'interesse del figlio minore, quale componente del nucleo familiare, affinché, rispetto ad altro convivente o componente del nucleo familiare che abbia tenuto nei suoi confronti una condotta pregiudizievole all'integrità fisica o morale o alla libertà - senza che si sia in presenza delle condizioni di cui agli artt. 330 e 333 c.c. - siano adottati gli ordini di protezione. Secondo una certa interpretazone, a sua volta, il minore potrebbe essere oggetto di un provvedimento di allontanamento ex artt. 5 e 2 della legge n. 154/2001. (135)

c) Le diversità procedurali

Le ipotesi per cui è prevista la competenza del Tribunale ordinario si differenziano rispetto ai casi di competenza del Tribunale per i Minorenni anche per gli aspetti procedurali.

La recente modifica della legge 184 del 1983, pubblicata sulla gazzetta ufficiale del 26 aprile 2001, ha modificato l'articolo 336 c.c., stabilendo che i provvedimenti di allontanamento di cui agli artt. 330 e 333 c.c. sono adottati su ricorso dell'altro genitore, dei parenti o del Pubblico ministero.

Il minore e il genitore sono assistiti da un difensore anche a spese dello Stato, nei casi in cui è previsto il gratuito patrocinio. Il Tribunale provvede in camera di consiglio, assunte le informazioni e sentito il Pubblico ministero.

La legge n. 154/2001 prevede, invece, che l'istanza al Tribunale ordinario possa essere proposta dalla parte personalmente, ossia dal minore, teoricamente anche senza l'ausilio della difesa tecnica. Inoltre, mancando un richiamo espresso all'art. 70 c.p.c., non sembra che il Pubblico ministero debba intervenire in questo tipo di processo.

d) Compatibilità tra le due norme

Il collegamento tra le due norme desta perplessità, soprattutto laddove gli articoli 2 e 5 della legge n. 154/2001, che ad una prima lettura sembrano destinati a mediare i conflitti tra adulti, possono invece trovare applicazione anche nei confronti dei minori. (136) Il legislatore non ha tuttavia modificato conseguenzialmente l'art. 38 delle disposizioni di attuazione del c.c. (137) Pertanto, si pongono delle questioni interpretative. (138)

In primo luogo si profilano dei problemi di compatibilità delle disposizioni della legge n. 154/2001 con il sistema vigente, che per l'ambito civile devolve al Tribunale per i Minorenni, seppur non in via generale ma a seguito del richiamo effettuato proprio dall'articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, la trattazione dei procedimenti di tutela del minore in situazioni di rischio. (139)

Una prima valutazione delle due norme sembrerebbe portare alla conclusione che le misure previste dalla legge n. 154/2001 siano aggiuntive alle misure cautelari già presenti nel sistema. Ci si chiede, dunque, se il Tribunale per i Minorenni possa utilizzare le misure previste dagli artt. 342-bis e 342-ter c.c. nei casi in cui la vittima di violenza in famiglia sia il minore, e tale Tribunale sia stato in prima istanza adito, sempre che si versi in una situazione di pregiudizio tale da non integrare una fattispecie di reato. Infatti, se il comportamento abusante del genitore è tale da integrare una fattispecie di reato perseguibile d'ufficio, la competenza esclusiva è quella del Tribunale per i Minorenni.

In secondo luogo, si profilano problemi di riparto tra Tribunale ordinario e Tribunale per i Minorenni, in tutti quei casi in cui, come è facile prevedere, sarà difficile accertare se si versi nell'ambito di applicazione degli artt. 330 e 333 c.c. oppure in altri casi di violenza familiare o di abuso tali da far richiedere contemporaneamente anche la decadenza della potestà del genitore, onde permettere l'applicabilità direttamente degli artt. 342 bis e 342 ter c.c..

 

6.14. Spunti critici e di riflessione: i diritti oggetto di discussione

Per quanto riguarda gli ordini di protezione, chiara è la ratio legis: offrire forme di intervento articolate ed incisive in tutte quelle situazioni patologiche di conflitto o di sopruso familiare che non hanno trovato (per lo meno, allo stato) una loro composizione in un procedimento di separazione personale o di divorzio.

A titolo esemplificativo, si riporta nell'appendice di documentazione il testo di due ricorsi con i relativi decreti emessi da parte del Tribunale ordinario di Firenze e del Tribunale per i Minorenni di Milano. È interessante puntare l'attenzione sulle motivazioni che le vittime hanno apportato nel ricorso al fine di ottenere l'applicazione della misura cautelare nei confronti del coniuge. Dal testo dei ricorsi traspare, in ambedue i casi, una situazione di grave pregiudizio per i familiari (in un caso si tratta, infatti, di una situazione di alcolismo e nell'altro di una situazione di violenza assistita), (140) in cui non si può non percepire come una situazione che affonda le sue radici nella gestione dei rapporti interpersonali, quindi di matrice sociologica, venga ad assurgere una piena rilevanza giuridica a seguito della violazione di diritti fondamentali delle vittime. Molto interessante risulta anche la motivazione data dai giudici, da cui si rileva l'iter seguito dagli stessi per accertare sia i presupposti di applicabilità delle misure in base alle prove raccolte (referti medici, rapporti della polizia o dei carabinieri, accertamenti sui redditi, testimonianze dei familiari delle vittime, dichiarazione dei minori coinvolti), sia la necessità o meno di adottare anche le misure accessorie. A tal proposito, il giudice di Firenze ha disposto anche l'applicazione della misura accessoria del pagamento periodico di un assegno a favore della vittima.

Alcune critiche sono state sollevate per il fatto che, se l'intento del legislatore di offrire tutela ai soggetti deboli all'interno della conflittualità familiare è certamente da valutare positivamente, la normativa ex novo introdotta (sulla scorta di analoghi istituti propri degli ordinamenti di common law) (141) non si armonizza appieno con la disciplina vigente e, per più aspetti, può sollevare seri dubbi di legittimità costituzionale. (142) Si tratta, infatti, di un intervento del giudice estremamente penetrante, che incide indubbiamente sulle libertà fondamentali e sembra muoversi in controtendenza alle nuove esigenze manifestatesi nel diritto di famiglia, attente e rispettose dell'autonomia negoziale dei coniugi nel momento della crisi familiare. È evidente, però, che di autonomia negoziale si può parlare quando i coniugi si trovano su un piano di formale e sostanziale parità: la violenza, invece, fa sicuramente venir meno tale condizione. Tuttavia, è da ritenere che il giudice debba disporre di questo potere assai ampio in modo particolarmente cauto e rispettoso dei diritti di tutti i soggetti coinvolti.

È infatti vero che il procedimento in questione, a cognizione sommaria e sostanzialmente cautelare, può portare all'adozione di provvedimenti che incidono su diritti fondamentali delle persone riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, in particolare agli artt. 13 e 16 (libertà personale, libertà di circolazione e soggiorno), ma anche all'art. 42 (proprietà privata). E questo avviene in mancanza di quel sistema rigoroso di condizioni e verifiche, che legittima il giudice penale a limitare tali diritti, ove sia ipotizzabile una fattispecie delittuosa. (143) Ma un problema di incostituzionalità della misura non sembra potersi ravvisare: infatti, bisogna tener presente che il diritto costituzionale all'inviolabilità del domicilio domestico (art. 14 Cost.) viene leso solo parzialmente e solo temporaneamente a favore della tutela di un altro diritto egualmente inviolabile, ossia l'integrità fisica e psichica della vittima, nonché il suo diritto alla vita.

La legittimità di questa impostazione può trovare conferma nella lettura del testo dell'art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che al comma 1 afferma che: "ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza." Tale norma sembra tutelare il diritto del coniuge violento a restare all'interno delle mura domestiche, mentre, al comma 2, chiaramente statuisce che tale diritto viene meno quando è necessario tutelare i diritti e le libertà altrui, laddove dispone che: "non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell'esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui."

L'ordine di allontanamento può essere assunto anche nei confronti di chi sia proprietario esclusivo della casa familiare. Si evidenzia, a tal proposito, un contrasto con le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza relativamente all'assegnazione della casa familiare in assenza di figli minori (o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti). (144) Infatti, si esclude che in tali casi il coniuge non proprietario possa essere assegnatario della casa familiare, sia in sede di separazione che di divorzio. Dunque, quando una grave situazione di conflitto familiare si verifichi prima (o indipendentemente) dal giudizio di divorzio, il coniuge o il convivente potrebbe essere tenuto ad allontanarsi dalla casa di sua proprietà, se autore di una violenza che sia stata ritenuta così grave da dover emettere un ordine di protezione. Ma, come già sottolineato nel paragrafo 5.3, è proprio la differente finalità tra la misura cautelare dell'ordine di protezione e il provvedimento di assegnazione della casa familiare a far venire meno ogni possibile contrasto. Le due norme portano a conclusioni diverse perché diversi sono gli scopi ad esse sottesi.

Secondo certa dottrina, (145) possono sorgere alcuni dubbi anche per quanto riguarda l'assegno che il giudice può disporre a favore del coniuge o convivente che per effetto dell'allontanamento rimarrebbe privo di mezzi adeguati. "Quest'ultimo rappresenta, per più aspetti, un provvedimento ibrido, una commistione tra quelli di cui agli artt. 148 comma 2 e 156 comma 6 c.c. Gli artt. 148 comma 2 e 156 comma 6 c.c., anche se connotati da una maggiore discrezionalità del giudice per quanto riguarda i presupposti. L'art. 148 comma 2 c.c. attribuisce al giudice (il presidente del Tribunale) il potere di ordinare che una parte dei redditi del genitore, che sia venuto meno al dovere di mantenere i figli, sia versata direttamente all'altro genitore (dal datore di lavoro, ma anche da chi sia tenuto a prestazioni periodiche verso l'inadempiente: ente pensionistico, conduttore di immobile in locazione, ecc.). Presupposto dell'ordine di pagamento è l'inadempimento; il quantum può essere già stato determinato (ad esempio in una sentenza di separazione o di divorzio o in un verbale ex art. 317 bis c.c. davanti al giudice minorile), ovvero essere quantificato dallo stesso presidente del Tribunale (che ben potrebbe ingiungere il pagamento pure quando il genitore inadempiente non avesse alcun rapporto con soggetti terzi, possibili destinatari di un ordine di corresponsione diretta al beneficiario). A sua volta l'art. 156 comma 6 c.c. prevede una procedura analoga (anche se di tipo strettamente esecutivo), di competenza del collegio o del giudice istruttore, se la domanda interviene in corso di causa, a fronte dell'inadempienza nel pagamento dell'assegno di separazione."

L'ordine di pagamento di cui alla legge 154/2001 può essere accessorio all'ordine di allontanamento dalla casa familiare, qualora, per effetto di detto allontanamento, i conviventi rimarrebbero privi di mezzi adeguati: si prescinde quindi da qualsiasi inadempienza, essendo sufficiente una sola presunzione di allontanamento con conseguente mancanza di quanto occorrente alla famiglia per il suo mantenimento.

Va altresì rilevato che la misura dell'allontanamento dalla casa familiare fornisce alle vittime uno strumento particolarmente elastico, senz'altro utile laddove si voglia agire a "tamponamento" di una situazione divenuta intollerabile, in quanto caratterizzata da forme di violenza più o meno intense. La misura è un segnale che la famiglia è in crisi ed ha bisogno di un aiuto temporaneo: se di fronte ad un intervento dell'autorità giudiziaria si ha un arresto della situazione di violenza, essa avrà raggiunto il suo scopo; altrimenti essa sarà stata solamente prodromica di un processo di separazione.

Invece, laddove la situazione di maltrattamenti è divenuta cronica e connaturata al modus vivendi di una famiglia, la misura dimostra di essere solo un palliativo, una effimera boccata d'aria. Pertanto, in tali casi sarà sconsigliabile applicarla, mentre sarà preferibile iniziare subito le pratiche della separazione.

Inoltre, nota forse ancora più rilevante, la misura di per sé, data la propria natura temporanea, non è senz'altro curativa del fenomeno, ma è utile in quanto si pone come un monito da parte dell'autorità giudiziaria ad interrompere la violenza. È perciò necessario che si crei un sistema di forze sociali che affianchino attivamente il giudice e la vittima, affinché sia quest'ultima che l'aggressore prendano coscienza della piaga ed affinché, insieme ai servizi, si intraprenda una terapia di riabilitazione e di sostegno per far sì che, una volta partita la segnalazione a seguito dell'irrogazione della misura, il fenomeno sia monitorato e definitivamente bloccato. Il rischio, infatti, è che la misura si applichi ai casi di nicchia, e non a quelli veramente gravi. La legge n. 154/2001, pur avendo inserito dei riferimenti ai centri di mediazione familiare o ai centri antiviolenza, non ha però munito di sufficiente obbligatorietà questa indicazione: questo è forse uno dei punti di maggiore debolezza della legge. Dovendo agire all'interno di un ambito così delicato come la famiglia, è necessario che venga creato un sistema di supporto intorno alla vittima, a spese dello Stato, per accompagnarla nelle fasi successive all'irrogazione della misura, per seguire le sue decisioni e sostenerla dal punto di vista psicologico, materiale e di assistenza legale.

La misura non deve essere intesa come strumento di repressione (per questo fine meglio si adatta la sede penale), bensì come segnale per far sì che scatti un sistema di protezione sociale intorno alla vittima. Altrimenti, una volta scaduta la misura, la situazione potrebbe essere anche peggiorata, in particolare dal punto di vista psicologico, e l'aggressore potrebbe divenire, a causa della misura subita, ancora più violento.

È importante che la vittima, una volta ottenuta la misura, sappia cosa fare, a chi rivolgersi, quale strada intraprendere: è in tale momento che essa ha bisogno della rete di solidarietà e di protezione. Questa è una responsabilità che lo Stato dovrebbe assumersi in prima persona, trasformandola in un servizio pubblico, senza delegarla passivamente ai centri antiviolenza per le donne. Questi ultimi, infatti, operando senza il necessario supporto statale, basano la loro attività essenzialmente sul volontariato degli associati, e quindi possono fornire solo un servizio di assistenza limitato nel tempo e nei mezzi. Se, al contrario, i centri fossero riconosciuti e integrati con le esistenti strutture statali, ci potrebbe essere una collaborazione diretta tra giudice, centro, vittima e aggressore, e la possibilità di un feedback durante il periodo di applicazione della misure cautelari.

Importante sarà anche verificare il funzionamento del raccordo con il procedimento di separazione, nei casi in cui, a seguito dell'emissione della misura, la vittima decida per l'alternativa della definitiva rottura del rapporto coniugale.

 

Appendice di documentazione

Ricorso al Tribunale ordinario di Firenze ex articoli 342-bis e 342-ter c.c. e relativo decreto;

Ricorso al Tribunale per i Minorenni di Milano ex articolo 333 c.c. e relativo decreto.

 

 

Note al capitolo 3

(1) M. Dogliotti, La famiglia e l'altro diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale, nota a sentenza Cassazione civile 7/6/2000, n. 7713, "Famiglia e diritto", n. 2/2001, pag. 164 e ss.: "Certo leggendo sentenze come quelle in commento, si misura la lontananza culturale dall'epoca in cui la famiglia e il suo diritto venivano considerati una sorta di zona franca, più vicina al diritto penale (ma, curiosamente, i reati, che pur si consumavano al suo interno, raramente venivano perseguiti) o comunque al diritto pubblico. E in essa non rivestivano alcuna rilevanza giuridica i principi del diritto contrattuale e delle obbligazioni (si doveva così ricorrere alla ambigua figura di "negozio giuridico familiare" dove l'elemento personale appariva sempre e necessariamente preminente rispetto a quello patrimoniale), né quelli lavoristici, perché ogni prestazione quantomeno si presumeva gratuita, e neppure quelli della responsabilità civile dai comportamenti contra-legem dovevano infatti conseguire sanzioni tipiche e particolari, escludendosi ulteriori forme di riparazione).

Tutto ciò aveva una sua logica, allora ben avvertibile: la famiglia come istituzione, con propri caratteri, funzioni, fini ed interessi da perseguire, ben distinti e prevalenti rispetto a quelli "egoistici" dei suoi componenti. Come è noto, la riforma del diritto di famiglia del 1975, con le sue notevoli innovazioni, contribuì al superamento di quella logica: alla famiglia-istituzione si andò sostituendo una famiglia comunità, i cui interessi coincidevano con quelli solidali di tutti i suoi componenti.

Ma pure la riforma, considerata alla distanza di più di un quarto di secolo, presentava qualche connotato ambiguo: l'esaltazione orgogliosa della differenza, della peculiarità del diritto di famiglia, che doveva trovare i suoi principi soltanto all'interno di esso, magari in aperto contrasto con la logica di altre partizioni del diritto civile o più in generale del diritto privato (si pensi alla disciplina dei rapporti patrimoniali tra i coniugi e alle difficoltà ricostruttive, in relazione al diritto contrattuale, alla teoria dei diritti reali, al diritto commerciale, societario e fallimentare, ecc.)

In tal senso, vista oggi, la novella del 1975 si potrebbe, almeno per certi versi, riguardare, un po' provocatoriamente, come l'ultima espressione di una tradizione, seppur in abiti mutati rispetto ad essa, che voleva il diritto di famiglia altro e diverso da ogni altro (come altro e diverso doveva essere il suo giudice: non a caso la maggior parte dei sostenitori della riforma, auspicava un "tribunale della famiglia, autonomo, differente e solitario).

Ma la vicenda di questo quarto di secolo è stata assai diversa: l'"altro" diritto ha finito, gradualmente per penetrare nella "cittadella" del diritto di famiglia, con esiti fino a qualche tempo fa del tutto impensabili."

(2) S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 25.

(3) Per l'analisi dei diritti dei singoli all'interno della famiglia si veda il capitolo I, paragrafo 1.3.

(4) Per l'analisi dei diritti e doveri dei coniugi si veda il capitolo I, paragrafi 1.4. e 1.6.

(5) Per l'analisi del reato di violazione degli obblighi di assistenza (ex art. 570 c.p.) e del reato di maltrattamenti in famiglia (ex art. 572 c.p.), si veda il capitolo II, paragrafi 2.1 e 2.3.

(6) A tal proposito si veda infra il paragrafo 5.1.1.

(7) Per le varie forme di violenza si veda il capitolo I, paragrafo 2.4.2.

(8) U. Oliva, Mobbing: quale risarcimento?, "Danno e responsabilità", n. 1/2000, pag. 27.

(9) Corte costituzionale 14/7/1986, n. 184, "Foro italiano", 1986, I, pag. 2053.

(10) G. Monasteri, Il danno esistenziale arriva in Cassazione, "Danno e responsabilità", n. 8-9/2000, pag. 835.

(11) Cassazione civile, sezione I, 7/6/2000, n. 7713, "Famiglia e diritto", n. 2/2001, pag. 189.

(12) Tribunale di Firenze 13 giugno 2000, "Danno e responsabilità", n. 7/2001, pag. 741.

(13) M. Dogliotti, op.cit., pag. 169: "Certo, se tale indicazione sarà confermata dalla futura giurisprudenza, si apriranno spazi di risarcibilità del tutto impensabili. Se è alla qualità di genitore che si dovrà far riferimento, danno potrà sorgere e sarà risarcibile nei confronti del figlio ogni volta che il comportamento del genitore stesso incida negativamente sul corretto sviluppo della personalità del minore: si pensi al genitore, convivente con il figlio (coniugato, non coniugato, separato, divorziato o meno) che comunque lo trascuri e non si occupi adeguatamente di lui; ovvero si consideri il genitore, comunque non affidatario, che gli faccia mancare i mezzi di sostentamento, ma pure che non lo visiti e non lo tenga con sé nei periodi prescritti o ancora il genitore che metta in opera comportamenti pregiudizievoli o gravemente abusi dei doveri o violi i diritti inerenti la potestà. O, infine, i genitori che "abbandonino" il figlio, venendo meno ai propri compiti educativi in modo gravissimo e irreversibile. In tutti questi casi, come è noto, il diritto di famiglia appresta sanzioni specifiche: la limitazione o la decadenza dalla potestà, il mutamento dell'affidamento o magari del regime di visita, nella separazione o nel divorzio, la dichiarazione di adattabilità."

(14) Per l'analisi dei diritti e doveri dei genitori si veda il capitolo I, paragrafo 1.6.2.

(15) G. Conso, V. Grevi, Profili del nuovo codice di procedura penale, Cedam, Padova, 1998, pag. 293.

(16) G. Conso, V. Grevi, op. cit., pag. 294.

(17) G. Conso, V. Grevi, op. cit., pag. 308.

(18) P. Gallina Fiorentini, P. Tommasini, Crisi coniugale e sospetto di abusi sessuali sui figli, "Famiglia e diritto", n. 4/1995, pag. 409, riportano che a seguito di sospetto di abuso sessuale da parte del padre sulla figlia minore, il GIP, su richiesta del P.M., dispone la sospensione dell'esercizio della potestà genitoriale per sei mesi e il divieto di dimora nel Comune di residenza.

(19) G. Conso, V. Grevi, op. cit., pag. 299.

(20) Per un commento specifico sulla nuova misura cautelare si veda infra il paragrafo 6 e seguenti.

(21) F. Perone, Le misure interdittive nel nuovo processo penale: spunti per un inquadramento costituzionale, "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1989, pag. 1616.

(22) E. Amodio, O. Dominioni, Commentario al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 107.

(23) E. Amodio, O. Dominioni, op. cit., pag. 110.

(24) Per la definizione del concetto di potestà si veda infra il paragrafo 4.1.1.

(25) A. Macchia, Spunti in tema di misure interdittive, "Cassazione penale", 1994, pag. 3151.

(26) Si segnalano qui di seguito le rubriche che interessano:

Art. 316 "Esercizio della potestà dei genitori"

Art. 317 "Impedimento di uno dei genitori"

Art. 317-bis. "Esercizio della potestà"

Art. 320 "Rappresentanza e amministrazione"

Art. 321 "Nomina di un curatore speciale"

Art. 322 "Inosservanza delle disposizioni precedenti"

Art. 323 "Atti vietati ai genitori"

Art. 324 "Usufrutto legale"

(27) Per la definizione di effetti penali di una sentenza si veda il capitolo II, paragrafo 5.5., nota 140.

(28) F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 1997, pag. 787.

(29) Art. 320 c.c. "Rappresentanza ed amministrazione": I genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.

Si applicano, in caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, le disposizioni dell'art. 316.

I genitori non possono alienare, ipotecare, o dare in pegno, i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare eredità o legati, accettare donazioni, procedere allo scioglimento di comunioni, contrarre mutui o locazioni ultranovennali o compiere altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, né promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a tali atti, se non per necessità o utilità evidente del figlio dopo autorizzazione del giudice cautelare.

I capitali non possono essere riscossi senza autorizzazione del giudice tutelare, il quale ne determina l'impiego. L'esercizio di un'impresa commerciale non può essere continuato se non con l'autorizzazione del tribunale su parere del giudice tutelare. Questi può consentire l'esercizio provvisorio d'impresa, fino a quando il tribunale abbia deliberato l'istanza.

Se sorge conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa potestà, o tra essi e i genitori, o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Se il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la potestà, la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all'altro genitore.

Art. 324 c.c. "Usufrutto legale": I genitori esercenti la potestà hanno in comune l'usufrutto dei beni del figlio. I frutti percepiti sono destinati al mantenimento della famiglia e all'istruzione ed educazione dei figli.

Non sono soggetti ad usufrutto legale:

- i beni acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro;

- i beni lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, o un arte o una professione;

- i beni lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti la potestà o uno di essi non ne abbiano l'usufrutto: la condizione però non ha effetto per i beni spettanti al figlio a titolo di legittima;

- i beni pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione e accettati nell'interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la potestà. Se uno di essi era favorevole all'accettazione, l'usufrutto legale spetta esclusivamente a lui.

(30) P. Veneziani, in Commentario delle norme contro la violenza sessuale, (a cura di) A. Cadoppi, Cedam, Padova, 1996, pag. 263.

(31) Art. 389 c.p. "Inosservanza delle pene accessorie": Chiunque avendo riportato una condanna, da cui consegue una pena accessoria, trasgredisce agli obblighi o ai divieti inerenti a tale pena, è punito con la reclusione da due a sei mesi.

La stessa pena si applica a chi trasgredisce agli obblighi o ai divieti inerenti ad una pena accessoria provvisoriamente applicata."

(32) Tribunale per i Minorenni di Roma 12 dicembre 1985.

(33) Tribunale per i Minorenni di Palermo 5 agosto 1996.

(34) Per un'analisi del fenomeno di violenza assistita si veda il Capitolo I, paragrafo 2.4.2.

(35) Tribunale per i Minorenni di Torino 6 febbraio 1982.

(36) Tribunale per i Minorenni di Perugia 10 marzo 1994.

(37) Tribunale per i Minorenni di Roma, "Diritto di famiglia e delle persone", 1993, pag. 222. Il medesimo tribunale, con due decreti del 1985, aveva precedentemente ritenuto, al contrario, che la decadenza dalla potestà parentale nei confronti di un figlio non si estendesse agli altri figli, in quanto il genitore decaduto nei confronti di un figlio poteva invece comportarsi amorevolmente nei confronti degli altri. Inoltre, si sosteneva che la potestà è un potere che intercorre fra due persone rispettivamente in posizione di genitore e figlio; la legge, ex artt. 316, 330, 333, e 334 c.c., considera la potestà con riferimento testuale ad un solo figlio, onde era lecito dedurre che, in caso di più figli, vi fossero più potestà. Ma, con decreto 20 luglio 1992, il medesimo il Tribunale dei Minorenni, spiega come tali assunti non possono essere condivisi. "Anzitutto, il richiamo agli articoli del codice civile di cui sopra è del tutto incoerente, dal momento che in essi il termine figlio viene usato in senso generale ed astratto e come sinonimo di prole: prova ne sia il fatto che nei titoletti degli articoli citati non si parla di figlio bensì di figli. In secondo luogo, il rilievo preminente che viene dato al vincolo affettivo, eventualmente esistente tra il genitore decaduto e gli altri figli minori, e la concezione della potestà come potere del padre o rapporto di due persone in posizione di sostanziale sudditanza, non riflettono compiutamente il moderno concetto di potestà. Concepita come potere-autorità, e come tale frazionabile tra i vari figli, la potestà del genitore non è in sostanza che un riflesso del rapporto padre/padrone di vecchia memoria, o più dottamente, della concezione classica della manus o della potestas."

(38) Vedi supra nota 17.

(39) A. Proto Pisani, Diritto processuale civile, Jovene Editore, Napoli, 1996, pag. 178 e ss.

(40) A. Proto Pisani, Ibidem.

(41) M. Dogliotti, G. Giacchero, La potestà dei genitori. Una rassegna di giurisprudenza, "Famiglia e diritto", n. 2/1999, pag. 190.

(42) E. Quadri, L'interesse del minore nel sistema della legge civile, "Famiglia e diritto", n. 1/1999, pag. 80.

(43) L. Lunardi, Decadenza dalla potestà genitoriale: potere di controllo e di intervento dei giudici, "Famiglia e diritto", n. 3/1998, pag. 281.

(44) Il testo in corsivo è stato introdotto con la legge n. 149 del 2001.

(45) Ibidem.

(46) A. Figone, Decadenza della potestà genitoriale, contestazione di abusi sessuali e successivo proscioglimento, "Famiglia e diritto", n. 1/2001, pag. 87.

(47) "Famiglia e diritto", n. 1/1994, pag. 86.

(48) A. Figone, Allontanamento del genitore dalla casa familiare, "Famiglia e diritto", n. 1/1994, pag. 89.

(49) A tal proposito si veda A. Proto Pisani, op. cit., pag. 761: "Estremamente problematica è la lettura di quelle ipotesi nelle quali al giudice camerale è devoluta la gestione di interessi dei minori che si pongono in conflitto con la potestà parentale (cioè con una situazione soggettiva di rango particolarmente elevato, in quanto coincidente con quel "dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del matrimonio" di cui all'art. 30, 1° comma, Cost.). Si tratta delle ipotesi di decadenza dalla potestà, di allontanamento del figlio dalla abitazione familiare ecc. di cui agli artt. 330 e 333 c.c. e art. 4 l. 184/1983.

La particolare problematicità di queste ipotesi deriva dal fatto che, per un verso, il provvedimento camerale (diversamente da quanto accade in ipotesi di rimozione del tutore e soprattutto di revoca di amministratore di condominio o società) incide su di una situazione soggettiva, la potestà del genitore, che ha contenuto squisitamente non patrimoniale, così che l'unica forma di tutela pensabile, ad essa adeguata, è la tutela specifica e non certo quella risarcitoria o per equivalente monetario; per altro verso, è estremamente difficile, per non dire impossibile, immaginarsi l'oggetto e i provvedimenti di tutela richiedibili in un possibile successivo processo contenzioso a cognizione piena nel quale sia fatta valere direttamente la potestà parentale.

Ne segue che, come è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, la situazione soggettiva della potestà parentale - nelle ipotesi previste dagli artt. 330 e 336 c.c. - è tutelata solo nelle forme ex art. 737 ss. c.p.c., cioè in forme sostanzialmente sommarie destinate a sfociare in provvedimenti privi di attitudine al giudicato formale e sostanziale.

Le conseguenze di una tale situazione sono particolarmente gravi: con essa, nella sostanza (come non ha mancato di rilevare la giurisprudenza più avvertita), la potestà del genitore, pur essendo configurabile come diritto assoluto erga omnes nei confronti di terzi, nei rapporti diretti col figlio degrada a potere dovere, ad ufficio di diritto privato nell'interesse del figlio, il cui esercizio è soggetto al controllo di merito, alla gestione del giudice.

Una volta degradata, nei rapporti col figlio, la situazione soggettiva del genitore ad una situazione debole che nulla ha più del diritto soggettivo, allora ad avviso della giurisprudenza sarebbe agevole comprendere come sia possibile incidere sulla potestà parentale tramite provvedimenti limitativi, sospensivi, o, addirittura, almeno nella sostanza, ablativi, emanati nelle forme ex art. 737 ss. c.p.c. (senza il controllo da parte della Corte di cassazione ex art. 111 Cost. (...) La situazione non è affatto tranquillizzante poiché tutela in modo pieno solo la titolarità formale del rapporto genitore-figlio, ma consente che il contenuto dell'esercizio della potestà parentale possa essere in concreto compromesso, fino all'annullamento, da provvedimenti camerali - come tali non garantisti - emanati sulla base della valutazione dell'esclusivo interesse del figlio minore. Né il difetto di garanzia, proprio del procedimento ex art. 737 ss., è compensato dalla modificabilità e revocabilità in ogni tempo, dei relativi provvedimenti, poiché la revoca o la modifica saranno emanate egualmente a termine di un procedimento non garantista ex art. 737 ss."

(50) F. Tommaseo, Abuso della potestà parentale: giudizio di separazione pendente e competenza del giudice minorile, "Famiglia e diritto", n. 5/1994, pag. 498.

(51) M. Bianca, Diritto civile, vol. II, Giuffrè, Milano, 1989, pag. 137.

(52) M. Bianca, op. cit., pag. 139: "La separazione è divenuta pertanto un rimedio di tipo sospensivo che si colloca accanto ai rimedi cautelari e risolutori previsti in generale per le ipotesi di obbiettiva irrealizzazione o irrealizzabilità del rapporto giuridico."

(53) M. Bianca, op. cit., pag. 140: "L'intollerabilità della convivenza può anzitutto risultare dalla grave violazione dei doveri matrimoniali (dovere di fedeltà, dovere di coabitazione, volontaria cessazione delle prestazioni sessuali). Essa può conseguire a causa di fatti materialmente impeditivi della convivenza (l'allontanamento del coniuge, dalla condanna del coniuge all'ergastolo o alla reclusine, pur conseguente alla commissione di un reato non inerente ai doveri coniugali, ovvero da fatti che impediscono il normale rapporto di coppia, come sopravvenute malattie mentali o fisiche, oppure l'impotenza). Infine fatti che ledono la comunione tra i coniugi possono rilevare (quali la condotta di un coniuge in netto contrasto con le scelte ideologiche, morali o religiose dell'altro, come pure l'interruzione della gravidanza unilateralmente decisa dalla donna)."

(54) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 850.

(55) M. Bianca, op. cit., pag. 150 e ss.: "Per quanto riguarda gli effetti personali i coniugi non possono contrarre nuove nozze in quanto conservano il loro stato coniugale. La moglie può ancora portare il nome del marito, e cioè aggiungerlo al proprio (156-bis c.c.), a meno che questo fatto non crei grave pregiudizio all'uno o all'altro.

La sospensione dei doveri coniugali concerne anzitutto l'obbligo della coabitazione. La separazione sospende inoltre gli obblighi di fedeltà e collaborazione. La separazione non sospende invece l'osservanza dell'obbligo di assistenza morale e materiale.

Nel considerare gli effetti della separazione di ordine patrimoniale occorre anzitutto tener presente che la separazione tiene ferma la doverosa assistenza materiale, mentre sospende l'obbligo di collaborazione. Infatti dato che la separazione non estingue né sospende come tali i diritti di contenuto economico che spettano ai coniugi, il coniuge separato conserva quindi il diritto all'assistenza materiale, che tuttavia venendo meno la convivenza, si traduce nel diritto ad un assegno di mantenimento e nel diritto di abitazione nella casa familiare. Il coniuge separato conserva inoltre il diritto all'assistenza previdenziale e il diritto alla successione ereditaria."

(56) G. De Marzo, Responsabilità civile e rapporti familiari, "Danno e responsabilità", n. 7/2001, pag. 741.

(57) La Cassazione, nella sentenza n. 7713 del 2000, cit., ha affermato che: "l'art. 2043 c.c., correlato agli articoli 2 e ss. Costituzione, va così necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana."

(58) Per un approfondito studio si veda M. Bona, Commento a sentenza della Cassazione n. 7713 del 7 giugno 2000, "Famiglia e diritto" n. 2/2001, pag. 189.

(59) M. Bianca, op. cit., pag. 187 e ss.

(60) G. Francolini, La tutela del coniuge più debole nell'assegnazione della casa familiare, "Famiglia e diritto", n. 5/1999, pag. 458.

(61) Cassazione 5 giugno 1991 n. 6348.

(62) G. Francolini, op. cit., pag. 463.

(63) E. Vullo, Sull'esecuzione coattiva dei provvedimenti ex art. 708 comma 3 c.p.c., "Famiglia e diritto", n. 3/1998, pag. 237.

(64) Cassazione 1 settembre 1997, n. 8317, "Foro italiano", 1998, pag. 98.

(65) M. Bianca, op. cit., pag. 155.

(66) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 690: "Il provvedimento ex art. 700 è provvisorio perché ontologicamente inidoneo a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso: questa sarà dettata unicamente dalla sentenza emessa al termine del processo a cognizione piena; è strumentale in quanto la sua efficacia viene meno se non è iniziato o proseguito il processo destinato a sfociare nella sentenza di merito."

(67) Ibidem.

(68) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 703: "Con l'espressione diritti di libertà ci si riferisce a quel complesso di diritti fondamentali che hanno trovato diretto o indiretto riconoscimento soprattutto nella Costituzione, i quali:

- quanto a struttura, sono caratterizzati dal fatto che il loro godimento è assicurato da obblighi negativi di non fare gravanti su tutti o su alcuni membri della collettività (e come tali mai suscettibili di attuazione tramite la tecnica dell'esecuzione forzata stante l'infungibilità propria dell'obbligo di non fare e il carattere preventivo-inibitorio che assume qualsiasi condanna di non fare); ovvero, ove si tratti di libertà sostanziali, dal fatto che il loro godimento è assicurato solo per il tramite di una obbligazione positiva di dare o di fare altrui, molto spesso infungibile o di difficile surrogazione da parte di un terzo, difficoltà dovuta ad ostacoli di ordine quantitativo e qualitativo;

- quanto a funzione, hanno carattere non patrimoniale: ciò significa che tali diritti, sono, per definizione, destinati a subire un pregiudizio irreparabile, perché non suscettibili di risarcimento nella forma dell'equivalente monetario, ove dovessero permanere in uno stato di insoddisfazione per tutto il tempo necessario per lo svolgimento del processo a cognizione piena."

(69) A. Proto Pisani, ibidem.

(70) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 694.

(71) Ibidem.

(72) Cassazione 21 maggio 1988, n.3541, "Foro italiano", 1989, pag. 131.

(73) A. Carratta, Provvedimenti presidenziali "nell'interesse dei coniugi e della prole" ex art. 708 e tutela d'urgenza, "Famiglia e diritto", n. 4/1999, pag. 376.

(74) Lavori preparatori del parlamento in Indici delle leggi.

(75) G. Dosi, La violenza domestica non abita più qui, "Diritto e giustizia", 7 aprile 2001, pag. 10.

(76) Per gli elementi essenziali delle misure cautelari personali interdittive e coercitive vedasi supra ai paragrafi 2.1.1. e 2.1.2.

(77) A. Figone, Commento alla legge 154/2001, "Famiglia e diritto", n. 4/2001, pag. 356.

(78) Art. 307 comma 4 c.p.: "Agli effetti della legge penale, si intendono per "prossimi congiunti" gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole."

(79) A. Figone, op. cit., pag. 356.

(80) R. Bricchetti, Commento alla legge n. 154/2001, "Guida al diritto", 12 maggio 2001, pag. 20.

(81) Per il contenuto della misura del divieto e obbligo di dimora, si veda supra il paragrafo 2.1.1.1.

(82) R. Bricchetti, Ibidem.

(83) R. Bricchetti, Ibidem.

(84) In proposito si veda infra il paragrafo 6.13.

(85) Art. 38 disp.att. c.c.: Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 171, 194 comma secondo, 250, 252, 262, 264, 316, 317 bis, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché nel caso di minori dall'articolo 269, primo comma, del codice civile.

Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria.

In ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio sentito il pubblico ministero.

Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni il reclamo si propone davanti alla sezione di corte d'appello per i minorenni.

(86) Art. 70 c.p.c. " Intervento in causa del pubblico ministero":

Il pubblico ministero deve intervenire a pena di nullità rilevabile d'ufficio:

- nelle cause che egli stesso potrebbe proporre;

- nelle cause matrimoniali comprese quelle di separazione dei coniugi;

- nelle cause riguardanti lo stato e le capacità delle persone;

- abrogato

- negli altri casi previsti dalla legge.

Deve intervenire in ogni causa davanti alla Corte di Cassazione.

Può infine intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse.

(87) A. Figone, op. cit., pag. 396.

(88) D. Abram, M. Acierno, Le violenze domestiche trovano una risposta normativa, "Legge e istituzioni", Questioni Giustizia 2001, pag. 222 e ss.

(89) Per l'analisi delle varie forme di violenza si veda il paragrafo 2.4.2 del capitolo I.

(90) D. Abram, M. Acierno, op. cit., pag. 228 e ss.

(91) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 530: "Nel nostro sistema, il doppio grado assolve la funzione di garanzia soggettiva: l'interessato, che si ritenga colpito da una sentenza ingiusta ovvero illegittima, può provocarne il controllo da parte di un altro giudice. L'art. 24, 2° comma della Costituzione proclama l'inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del giudizio; di questo diritto di difesa una componente essenziale è indubbiamente costituita dalla possibilità di ottenere un riesame della causa da parte di un giudice diverso da quello che ha emanato la sentenza." Si tratta in questo caso di un doppio grado di tipo sommario.

(92) D. Abram, M. Acierno, op. cit., pag. 226.

(93) In tema di convivenza si veda il capitolo I, paragrafo 1.5.

(94) I. Tricomi, Commento alla legge 154/2001, "Guida al diritto", 12 maggio 2001, pag. 26.

(95) Cassazione Sezione III civile 3 ottobre 1996, n. 8652; Cassazione Sezione III penale 3 luglio 1997.

(96) F. Bocchini, Tra persona e famiglia un sofferto itinerario, "Famiglia e diritto", n. 1/1998, pag. 91 e ss: "Riprendendo un antico indirizzo, da tempo dimesso, la Cassazione ha negato il diritto di abitazione al coniuge che, non vantando alcun diritto reale o personale sull'immobile, non fosse affidatario di prole minorenne o convivente con figli maggiori non ancora economicamente sufficienti: Cass. Sez.Un. 11297 del 1995 e Cass. 2235 del 1996. "

(97) Vedi infra paragrafo 6.14.

(98) D. Abram, M. Acierno, op. cit., pag. 225.

(99) Per la definizione e il contenuto dell'art. 700 c.p.c., si veda supra paragrafo 5.2.

(100) D. Abram, M. Acierno, op. cit., pag. 230.

(101) Ibidem.

(102) Ibidem.

(103) A. Figone, op. cit., pag 358.

(104) In proposito si vedano supra i paragrafi 5.1 e 5.2.

(105) Per l'analisi dell'art. 388 c.p. si veda supra il paragrafo 3.2.

(106) C. Lanzani, Commento alla legge n. 154/2001, "Guida al diritto", 12 maggio 2001, pag. 22.

(107) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 180: "Di immediata deduzione è il fatto che una volta che il legislatore abbia subordinato la sussistenza della fattispecie criminosa non alla semplice elusione della condanna del giudice, ma alla presenza di atti fraudolenti, questo riduce in maniera consistente l'ambito applicativo della norma in esame."

(108) A. Figone, op. cit., pag. 358.

(109) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 657: "La tecnica della tutela cautelare consiste nel conferire alla parte il potere di chiedere al giudice l'emanazione di un provvedimento sommario al termine di un procedimento egualmente sommario sulla base della valutazione del fumus boni iuris, cioè della probabile esistenza del diritto che costituirà (o già costituisce) oggetto del processo a cognizione piena; del periculum in mora, cioè della probabile sussistenza di un danno che può derivare all'attore dalla durata, o anche a causa della durata, del processo a cognizione piena. Caratteristica strutturale della tutela cautelare è la provvisorietà, cioè la sua inidoneità, a differenza dei provvedimenti sommari non cautelari, a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso, e la strumentalità.

Il provvedimento cautelare in quanto emanato sulla base di una cognizione sommaria e non di una cognizione piena è per sua natura provvisorio nel senso che non sarà mai in grado di reggere di per sé solo in modo definitivo gli effetti che ad esso si ricollegano. Infatti i provvedimenti cautelari sono ineluttabilmente destinati o a perdere efficacia, ove il diritto a cautela del quale siano stati concessi venga dichiarato inesistente nel giudizio a cognizione piena, o ad essere assorbiti (o a seconda dei casi, sostituiti) dal provvedimento a cognizione piena che accerti l'esistenza del diritto a cautela del quale siano stati concessi.

Accanto alla provvisorietà si suole indicare come ulteriore e complementare caratteristica strutturale dei provvedimenti cautelari la strumentalità: i provvedimenti cautelari nascono come istituzionalmente serventi, strumentali per l'appunto, rispetto al processo a cognizione piena. Questa connotazione si coglie: a) innanzi tutto nella circostanza che i provvedimenti cautelari (con la sola eccezione dei provvedimenti di istruzione preventiva), ove siano emanati anteriormente all'inizio del processo a cognizione piena, sono destinati sempre a divenire inefficaci se il giudizio di merito non sia instaurato entro il termine perentorio fissato dal giudice o, in mancanza, entro il termine perentorio di trenta giorni previsto in via generale dalla legge (art. 669-octies c.p.c); b) in secondo luogo nella revocabilità e modificabilità del provvedimento (concesso ante causam o nel corso del processo a cognizione piena) durante l'istruzione da parte del giudice istruttore della causa di merito ove si verifichino mutamenti nelle circostanze (art. 669-decies); c) in terzo luogo nella inefficacia del provvedimento cautelare che consegue automaticamente non solo all'estinzione del processo a cognizione piena, ma altresì della emanazione di sentenza, anche non passata in giudicato, che dichiari l'inesistenza del diritto a cautela del quale la misura cautelare è stata concessa (art. 669-novies c.p.c.)."

(110) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 749: "Accanto alle funzioni giurisdizionali costituzionalmente necessarie, si pone l'area delle funzioni giurisdizionali non necessarie, ossia quelle che il legislatore ordinario è libero di attribuire o meno al giudice. Si tratta di un'area che concerne funzioni ulteriori rispetto a quella della tutela giurisdizionale dei diritti e degli status, che pertanto il legislatore ordinario potrebbe legittimamente rimettere, nella sia discrezionalità, anche in toto ai poteri privati o alla potestà amministrativa. (...) Il carattere volontario di queste attività devolute al giudice deriva dalla circostanza che si tratta di compiti, di funzioni, che il legislatore nella sua discrezionalità (volontarietà) poteva anche non affidare al giudice, cioè a pubblici funzionari caratterizzati dalla assoluta terzietà rispetto agli interessi su cui sono chiamati a provvedere e dalla indipendenza rispetto a qualsiasi specie di potere o soggezione. Alcuni rapidi esempi: la liquidazione di patrimoni separati (artt. 31, 2275, 2450 c.c.), il riconoscimento di persone giuridiche (artt. 12 e 2330 c.c.), la nomina e la rimozione di rappresentanti legali ai minori, agli incapaci, le vendite coattive, etc."

(111) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 751: "Il proprium del processo a cognizione piena predisposto per la tutela giurisdizionale dei diritti e degli status si coglie nella predeterminazione legislativa delle forme e dei termini (e dei corrispondenti poteri, doveri e facoltà processuali delle parti e del giudice) in tema di allegazione relative a domande, eccezioni e fatti, di meccanismi di conoscenza del fatto, di termini di difesa delle parti nei vari momenti del processo. Strettamente coerente a queste caratteristiche e alla previsione di mezzi di impugnazione è lo sfociare del processo a cognizione piena nel giudicato formale e sostanziale."

(112) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 751: "Le caratteristiche principali del processo ex art. 737 e ss, si rilevano nella sostanziale sommarietà della cognizione: si è alla presenza di un processo semplificato a contraddittorio rudimentale, dominato dalla assoluta discrezionalità del giudice nella determinazione delle sue modalità di svolgimento, destinato a concludersi con un decreto motivato reclamabile, e in ogni tempo modificabile o revocabile.

Si tratta di un processo sommario ma radicalmente diverso sia dai procedimenti sommari tipo decreto ingiuntivo o procedimento ex art. 28 l. 300/1970, poiché contro il decreto camerale (di primo grado o emanato in sede di reclamo) per un verso non è previsto alcun rimedio oppositorio idoneo a consentire, a garanzia della parte soccombente, lo svolgimento di un processo a cognizione piena, peraltro il decreto è espressamente dichiarato modificabile e revocabile in ogni tempo, e dunque assenza di giudicato formale e sostanziale; sia dai processi sommari cautelari, poiché per un verso in esso manca qualsiasi riferimento al requisito del periculum in mora, per altro verso non vi è alcun riferimento ad una sia pur allentata strumentalità rispetto ad un processo a cognizione piena."

(113) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 768.

(114) In proposito vedi infra paragrafo 6.11.

(115) C. Lanzoni, Ibidem.

(116) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 480, sostiene che in un processo a cognizione piena non esistono prove atipiche, in quanto "l'atipicità non può concernere il catalogo delle fonti materiali di prove (l'ispezione, il documento, le dichiarazioni di scienza), così come non può concernere l'attività di valutazione delle prove, in quanto questa, nei limiti in cui non si versi in ipotesi di prova legale, è già totalmente atipica, nel senso che il suo contenuto è acquisito in via di eterointegrazione dai canoni della logica e dai modelli delle scienze empiriche. Ne segue che l'atipicità può concernere solo le modalità di acquisizione delle singole prove: ed infatti gli esempi più frequenti di prove atipiche concernono prove, che si sono formate, o sono state acquisite, secondo modalità diverse da quelle previste dal codice civile o di procedura." Tuttavia, " il procedimento ex art. 737 ss. è quanto di più lontano immaginabile dai processi a cognizione piena del secondo libro c.p.c." Pertanto "il potere attribuito al giudice - dal terzo comma dell'art. 738 - di "assumere informazioni" sta a significare deroga a tutti i principi e le regole che disciplinano l'istruzione nel processo a cognizione piena; sta a significare, cioè piena apertura anche ai poteri inquisitori del giudice e alla prova atipica." Ivi, pag. 753.

(117) Non essendo prevista alcuna sanzione per la loro inosservanza, sembra trattarsi di termini ordinatori e non perentori. Infatti a differenza dell'art. 669-octies, il legislatore non ha inserite il termine "perentorio" all'interno dell'articolo 736 bis c.p.c.: quest'ultimo sembra, infatti, modellato a stregua dell'art. 669-sexies c.p.c. A. Proto Pisani, op. cit., pag. 247: "I termini a pena di decadenza sono qualificati come perentori e possono essere stabiliti soltanto dalla legge o dal giudice, ove a ciò espressamente autorizzato dalla legge; i termini perentori sono improrogabili, cioè non possono essere abbreviati o prorogati nemmeno su accordo delle parti. (...) A differenza dei termini perentori, i termini ordinatori possono essere prorogati dal giudice. La proroga deve però essere disposta prima della scadenza, non può avere una durata superiore al termine originario e non può essere consentita proroga ulteriore, se non per motivi particolarmente gravi."

(118) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 711: "La garanzia del contraddittorio non è eliminata ma si realizza in forma posticipata al provvedimento." Pur ammettendo che esistono casi in cui "l'urgenza di provvedere è tale da non consentire neppure quel minimo di dilazione necessaria alla convocazione della controparte", poiché in ogni caso si ha una compressione del diritto di difesa, sarebbe stata senz'altro più garantista la disciplina che avesse previsto termini perentori per l'instaurazione del contraddittorio.

(119) A. Figone, op. cit., pag. 359.

(120) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 758.

(121) D. Abram, M. Acierno, op. cit., pag. 232.

(122) Art. 669-septies c.p.c. "Provvedimento negativo": L'ordinanza di incompetenza non preclude la riproposizione della domanda. L'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell'istanza per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto.

Se l'ordinanza di incompetenza o di rigetto è pronunciata prima dell'inizio della causa di merito, con essa il giudice provvede definitivamente sulle spese del procedimento cautelare.

La condanna alle spese è immediatamente esecutiva ed è opponibile ai sensi degli articoli 645 e seguenti in quanto applicabili, nel termine perentorio di 20 giorni dalla pronuncia dell'ordinanza se avvenuta in udienza o altrimenti dalla sua comunicazione."

(123) D. Abram, M. Acierno, op. cit., pag. 232.

(124) Ibidem.

(125) Art. 669-quaterdecies c.p.c. "Ambito di applicazione": Le disposizioni della presente sezione si applicano ai provvedimenti previsti nelle sezioni II, III e V di questo capo, nonché, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal Codice civile e dalle leggi speciali. L'art. 669-septies si applica altresì ai provvedimenti di istruzione preventiva previsti dalla sezione IV di questo capo.

(126) D. Abram, M. Acierno, op. cit., pag. 232, nota. 27.

(127) A. Proto Pisani, op. cit., pag. 734: "È possibile che il legislatore ordinario, con riferimento a taluni specifici diritti, preveda che essi possano essere fatti valere (oltre che tramite processi a cognizione piena destinati a sfociare in provvedimenti con attitudine al giudicato, anche) in processi sommari sganciati dalla necessità di qualsiasi accertamento in concreto del periculum, ma destinati a sfociare in provvedimenti sommari per un verso privi di qualsiasi attitudine al giudicato (di qualsiasi idoneità a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso), per altro dotati di un'efficacia (meramente esecutiva, molto simile a quella propria dei titoli di formazione stragiudiziale) la quale, se potrà essere sempre rimessa in discussione in un futuro processo a cognizione piena (se del caso instaurata in via di opposizione all'esecuzione ex 6.15 c.p.c), non è però destinata in alcun modo alcuno a venir meno ove il processo a cognizione piena, non sia instaurato entro un termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice." Ivi, pag. 656.

"La consapevolezza della possibile esistenza di processi sommari-semplifcati-esecutivi e della legittimità teorica di una simile previsione sia utile sotto più aspetti. In primo luogo, perché consente agevolmente di evitare di ritenere che ogni provvedimento relativo a diritti abbia necessariamente attitudine al giudicato, ancorchè sia stato emanato a termine di un non garantista processo sommario non trasformabile in un processo a cognizione piena; consente cioè di evitare la troppo rigida alternativa secondo cui, ove contro il provvedimento sommario non siano previsti rimedi di tipo impugnatorio o oppositorio, si dovrebbe ritenere o: a) che il provvedimento sia ricorribile per cassazione, ex art. 111, 2° comma, con inevitabile sacrificio delle garanzie offerte anche da un solo grado di giudizio a cognizione piena; o b) che il provvedimento sia costituzionalmente illegittimo: linea interpretativa, quest'ultima, certamente preferibile, ma che presenta il difetto di porsi in completo e radicale contrasto con più che trentacinquennali orientamenti della Corte di cassazione e con il costante orientamento della Corte costituzionale che preferisce salvare la costituzionalità della tutela giurisdizionale dei diritti assicurata da processi sommari, sol che tali processi rispettino un minimum di garanzie." Ivi, pag. 749.

(128) Ibidem.

(129) C. Lanzani, op. cit., pag. 25.

(130) A. Figone, Ibidem.

(131) A. Figone, op. cit., pag. 359.

(132) A. Figone, Ibidem.

(133) Per un commento a questi articoli si veda supra i paragrafi 4.1.3. e 4.1.4.

(134) I. Tricomi, op. cit., pag. 18.

(135) I. Tricomi, Ibidem.

(136) I. Tricomi, Ibidem.

(137) Per il testo dell'art. 38 disp. att. c.c. si veda supra la nota 82.

(138) I. Tricomi, Ibidem.

(139) I. Tricomi, Ibidem.

(140) Per la definizione di violenza assistita, si veda il capitolo I, paragrafo 2.4.2.

(141) Per gli istituti previsti nel sistema anglossassone, si veda il capitolo IV, paragrafo 4.

(142) A. Figone, op. cit., pag. 356.

(143) A. Figone, op. cit., pag. 357.

(144) Ibidem.

(145) Ibidem.

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